Gabriele Salvaterra
Gabriele Salvaterra è un curatore indipendente e operatore museale nato a Tione di Trento nel 1984. Attualmente, lavora al Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, oltre a essere nella giuria del Premio Artivisive San Fedele di Milano. Ha curato numerose mostre, pubblicato cataloghi e collabora con riviste specializzate come giornalista. Nel 2023 ha pubblicato il suo saggio “Sulla superficie” per Polistampa.
Chiara Canali
Chiara Canali, critica d’arte, giornalista e curatrice indipendente, nota per l’organizzazione di eventi e iniziative legate alle nuove tendenze dell’arte contemporanea, inclusi i New Media e la Street Art. Ha una vasta esperienza nella direzione e coordinamento di mostre e manifestazioni in collaborazione con istituzioni pubbliche e private.
Gabriele Lorenzoni
Gabriele Lorenzoni (1984) lavora come curatore presso la Galleria Civica di Trento / Mart ed è responsabile di ADAC (Archivio Documentazione Artisti Contemporanei). La sua ricerca si rivolge al punto di intersezione e scambio fra la scena artistica del territorio nel quale lavora e l’ambito nazionale e internazionale. È docente di storia dell’arte contemporanea presso IED
Federico Mazzonelli
Storico dell’arte e curatore indipendente. Laureato in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma, ha
curato numerose mostre, pubblicato cataloghi. Collabora con musei come il Mart di Rovereto, la galleria civica di Trento, fondazioni e gallerie private.
Testi critici (Selezione)
Testo critico Gabriele Salvaterra sulla pratica artistica di Angelo Demitri Morandini
Ex Machina
Angelo Demitri Morandini
The reason I’m painting this way
is that I want to be a machine
Andy Warhol
Da tempo la ricerca di Angelo Demitri Morandini ha a che fare con linguaggio, tecnologia e interazioni, queste ultime a loro volta di natura sociale, personale e, ancora, digitale. Sembra quindi per uno strano caso incontrarlo nei territori di disegno e pittura, spinto negli ultimi anni dalla volontà di entrare nell’universo del dipingere, ma in una maniera totalmente personale e anti-accademica, come spesso accade all’interno della sua poetica. La produzione grafica in questione è, infatti, di tipo automatico e si distingue in due grandi universi. Uno, in cui Morandini prende le parti di un artefice diretto che cerca però di annullarsi come individuo per raggiungere un vuoto mentale e aggirare i filtri di controllo del pensiero razionale; l’altro, in cui la creazione è “commissionata” a macchine assurde di sua realizzazione, per nulla tecnologiche in senso tradizionale ma quasi oggetti da bricolage che sembrano funzionare per un miracoloso equilibrio di forze contrastanti, movimenti permessi e altri obbligati.
Di fatto, per una naturale insofferenza a stabilirsi in un ambito formale chiuso e definitivo, l’espressione di Morandini riesce sempre a dare corpo alla triangolazione che costituisce il suo specifico anche sotto apparenze del tutto diverse come queste. Linguaggio che si crea automaticamente, macchine di una tecnologia primitiva in grado di produrre “parole” fuori dal controllo del loro inventore, interazione continuamente calibrata tra un oggetto che sembra pensante (la macchina stessa) e un individuo che fa qualsiasi cosa pur di eliminare il carattere riflessivo della propria personalità (l’autore stesso). A voler essere ancora più accurati, questo nuovo lavoro al confine tra l’installazione, la performance, la scultura cinetica e la realizzazione tradizionale su supporto, arriva a coinvolgere anche il nodo della manipolazione, altro crocevia dell’impostazione teorica dell’artista (che per essere precisi risulta essere articolata su linguaggio, manipolazione e relazione).
Morandini architetta infatti i suoi organismi disegnativi avendo sempre di mira un perfetto equilibrio tra libero arbitrio e condizionamento, movimenti consentiti e altri preclusi. Si tratta di costruzioni quasi comiche, figlie di una creatività da ghetto o favela, dove si fa di necessità virtù, con ventole estratte da computer che alimentano il movimento di fogli, solleticati da penne, carboncini o matite appesi a fili di ferro o di cotone. Palline da ping-pong che girano sulla ruota della loro gabbietta senza posa. Rasoi elettrici divenuti supporto per appendici di grafite, avvitatori o fresatrici che con l’ausilio di “lunghi arnesi” lignei (e necessariamente di strumenti in grado di lasciare il segno) si trasformano in assurdi oggetti capaci di registrare il movimento.
Ciò che affascina Morandini, nel suo approccio quasi scientifico e laboratoriale alla pratica artistica, è osservare l’emergere spontaneo di un linguaggio dai movimenti inconsulti di un organismo meccanico ossessivo, nel quale è possibile leggere, come in qualsiasi altra produzione umana, un’intenzionalità e trovare un appiglio interpretativo-ermeneutico. Questo segno automatico assomiglia a qualcosa, è espressivo di un sentimento, crea uno stato d’animo… anche la macchina insomma mette alla prova la capacità del nostro occhio di dare senso alle cose. Viceversa l’autore, quasi invidioso rispetto alle strane creature a cui ha dato vita, si mette sulla sponda opposta e prova a disegnare facendo leva solo sulla vuota materialità del proprio corpo, come fosse un automa senz’anima.
Si ottiene così una sfida tra l’elemento involontario e meccanico che c’è nell’uomo versus l’elemento umano che c’è nella macchina. Macchine poetiche, patetiche, drammatiche; artisti creatori robotici, vuoti, manichini metafisici. In questa maniera si sparigliano le carte e diventa complesso comprendere quali opere siano state eseguite dagli strumenti meccanici, quali da Morandini e quali siano invece il risultato di una collaborazione che, tra scelte e reciproci condizionamenti, ha nello stesso tempo i caratteri della lotta e della complicità. Oppure, ancora, il vero lavoro si potrebbe situare ben distante dal prodotto finito, andando a corrispondere alla performance istantanea che questi curiosi personaggi mettono in atto… Difficile dirlo…
Maurice Merleau-Ponty, parlando della possibilità di applicare l’antropologia alla propria cultura ci aiuta a entrare negli intenti di Morandini: “Metodo singolare”, (quello antropologico), dice, “si tratta di imparare a vedere come estraneo quello che è nostro, e come nostro quello che ci era estraneo”. In effetti l’artista, in questo gioco di spostamenti continui, esce da se stesso nel momento in cui disegna e si appropria autorialmente della produzione degli automi che ha costruito nel momento in cui danno alla luce qualche tratto. Tutto ciò al fine di guardarsi da fuori e nel contempo guardare alla realtà con gli occhi della materia (in)animata.
In entrambi i casi i risultati di queste attività ossessivo-compulsive, isteriche e masturbatorie portano a testi artistici che possono essere interpretati, dando luogo a uno strano gap tra invenzione incontrollata e lettura di narrazioni che non hanno volontà. A tal proposito, c’è tutta una tradizione novecentesca di autori che hanno fatto leva sulla creazione automatica e aleatoria di dispositivi di senso per criticare dall’interno una modalità ortodossa di produzione e, con essa, un’intera cultura. Si pensi anche solo al Surrealismo di Max Ernst e del cadavre esquis, alle sgocciolature di Jackson Pollock o Morris Louis, le Méta-Matic degli anni Cinquanta di Jean Tinguely. Anche Andy Warhol in una celebre dichiarazione afferma, similmente a Morandini, la sua aspirazione a diventare atarassico e imperturbabile quanto una macchina, cosa che lo porta a creare opere effettivamente molto controllate, riproducibili e anonime come cartelloni pubblicitari. Nel caso presente, invece, se si è fortunati, si può assistere alla realizzazione in tempo reale di lavori quasi espressionisti, segnici e gestuali che portano alla luce geroglifici di società scomparse o ancora da nascere.
Paul Klee diceva che “l’arte non riproduce ciò che è visibile ma rende visibile ciò che non sempre lo è”. Attorno a questa qualità ormai assunta nelle produzioni grafiche e pittoriche contemporanee, grazie proprio alle conquiste delle avanguardie novecentesche, Angelo Demitri Morandini lascia coagulare un altro elemento centrale della sua ricerca disegnativa: il rapporto tra visibile e invisibile. “Disegno è movimento e viceversa. Ogni nostra azione lascia linee invisibili nello spazio. Quando ci radiamo la barba, quando mangiamo, quando ci laviamo i denti…”. Se, riprendendo il suo statement, allora l’immateriale evocato dalla pratica dell’artista non è poi tanto quello di un mondo possibile cristallino, spirituale e sensibile come per Klee, ma semplicemente un tracciato prosaico dei movimenti e delle coreografie involontarie che mettiamo in atto nella nostra vita di ogni giorno. Correndo, spostandoci, facendo le pulizie, cucinando di fatto ognuno di noi danza e realizza segni nello spazio che la semplice addizione di materiali grafici (grafite, carboncino, acrilico, vernice) su apposite propaggini può registrare. In questo modo ci si ricollega a una serie di esperienze della neoavanguardia (Allan Kaprow per la performance, John Cage per la musica e Merce Cunningham per la coreutica) volte a reimmettere tutto un rimosso di suoni, piccoli accadimenti e movimenti della vita quotidiana all’interno della ricerca artistica, riversando sullo stage estetico gli automatismi del tran-tran giornaliero. Anche qui la dimensione del sovrappensiero nello svolgere le azioni più comuni costituisce il combustibile per trovare nuovi movimenti e nuovi segni da offrire all’interpretazione umana, sempre nell’ambiguità connessa al dare senso a qualcosa che nasce senza una precisa volontà di significazione.
Va forse infine sottolineato il collegamento con le tele sociali di Morandini, altro suo ambito di produzione caratteristico, in cui la pittura e le sue superfici specifiche vengono impiegate come piattaforme collaborative per la registrazione di processi interattivi. Ogni partecipante, selezionato su basi etniche, sociali, biografiche, di classe o età, può realizzare il proprio itinerario utilizzando la semplice cellula base del triangolo, con la sola regola che ogni nuova forma tracciata deve sfruttare uno o due lati della precedente per poter essere aggiunta. Nei disegni automatici le macchine robotiche funzionano un po’ come le persone nelle tele sociali. Sono incognite che sotto la morbida regia dell’autore hanno la capacità di “aprire il lavoro”, svelando possibilità inaspettate allo stesso controllo dell’artefice. Nello scenario di Ex Machina, però, non si può neppure nascondere un elemento sadico nel vedere queste costruzioni assurde arrabattarsi per tirare avanti. C’è uno sforzo fuori misura, un spreco totale di energia che, come nella fatica di Sisifo, le rende così somiglianti a una persona reale nell’affrontare le costanti problematiche della sua vita. Eppure, nonostante questa nota drammatica, tali organismi primitivi sono in grado di lasciare patetiche tracce, dare luogo a segni, rappresentare il passaggio dalla preistoria alla storia con il loro apprendere e praticare una forma assurda di scrittura. Sono, in fondo, individui la cui esistenza vale la pena di essere vissuta.
Il finale è comunque molto meditativo, legato alla ricerca di un vuoto mentale libero da intenti e aspettative. Anche nei segni lasciati tanto dall’artista quanto dalle macchine c’è un che di contemplativo, come nella recitazione di un mantra o nel passare in rassegna i grani di un rosario: l’idea che ripetendo gesti di cui alla lunga si perde il senso possa portare a uno stato di pace ascetica.
Gabriele Salvaterra
settembre 2022
Angelo Demitri Morandini. Il bricoleur delle parole (e dei dati)
Di Chiara Canali
“Libero perseguimento di scopi fittizi: tale è proprio il carattere dell’attività ludica. Il campo del gioco è il paradosso del come se” afferma Edouard Claparède a proposito della definizione di “gioco” e prosegue: “Il gioco ha la funzione di permettere all’individuo di realizzare il suo io, di dispiegare la sua personalità, di seguire temporaneamente la direzione del suo maggior interesse, nel caso in cui non possa farlo ricorrendo alle attività serie”[1].
Per descrivere la pratica artistica di Angelo Demitri Morandini, artista visuale e concettuale oltre che filosofo e ricercatore, potremmo sovrapporre o alternare la parola “arte” a quella di “gioco” in quanto per l’artista l’atto estetico si configura come un processo (in alcuni casi anche fortemente ludico) che consente di mettere in luce alcuni “nonsense” o alcune fratture nella odierna società della comunicazione e dell’informazione.
Come in alcuni precedenti progetti, anche in questo caso la ricerca artistica prende avvio dal linguaggio. Secondo Lévi-Strauss il linguaggio verbale è il tratto distintivo dell’uomo e, in questo elemento, viene individuata la struttura portante della società.
Come ci insegna Ferdinand de Saussure, la lingua è un sistema di segni, ciascuno dei quali è costituito da un concetto (significato) e da un’immagine acustica (significante) in stretta unione fra loro. Angelo Morandini parte non tanto dal concetto della parola quanto dal grafema quale elemento che costituisce un’unità grafica minima. Questi grafemi sono realizzati a mano dall’artista mediante un flusso creativo di scrittura automatica. Non rimandano a un alfabeto preciso ma sono simboli grafici che hanno un riferimento estetico nei segni di una sua opera precedente: Fragile Babilonia (2020). Un’installazione site-specific che consisteva nella collocazione a terra, a distanze organizzate e sequenziali, di centinaia di punti metallici irregolari generati da una graffatrice che “sparava” le sue graffette su un sasso. Ogni gancio assumeva, pertanto, forme sempre diverse divenendo parte di un alfabeto del tutto casuale che rimandava a indecifrabili ideogrammi o grafemi di una lingua sconosciuta.
Nella serie Motus Liber. Authority of Symbols: The Manipulative Power of Algorithms, Morandini ha tracciato con la propria calligrafia una serie di segni (o grafemi) e li ha disposti su una griglia regolare. I segni solitamente sono simboli, elementi immateriali che collegano a livello di sistema, astratto e convenzionale, ma socialmente riconosciuto come codice, gli oggetti e le esperienze diffuse nella vita quotidiana. In questo caso i segni sono però incomprensibili alla vista dell’occhio e diventano plausibili e comprensibili solo attraverso l’uso dell’app Google Lens ( che permette di identificare i segni o i grafemi inquadrati con la fotocamera) scegliendo l’opzione “Traduci” che si collega immediatamente con il servizio di Google Translate. L’algoritmo di traduzione interpreta selettivamente alcuni simboli, trasformandoli in parole o frasi di senso compiuto appartenenti a lingue di differenti ceppi (dall’arabo al persiano, dal russo all’ucraino). Tutti i codici sono arbitrari e i segni di questo codice non assumerebbero alcun senso senza il “gioco” attivo e partecipativo dello spettatore e la “relazione di significazione” che si attua grazie all’algoritmo digitale, rendendo possibile un processo di comunicazione, di tipo casuale e aleatorio. Ovviamente questo processo evidenzia il potere dell’algoritmo nel plasmare e manipolare il linguaggio e, di conseguenza, la formazione delle idee. L’algoritmo ha il potere di far emergere una forma di intelligenza semantica sommersa, che altrimenti rimarrebbe inespressa.
Tuttavia non sempre l’algoritmo riesce a decodificare tutte le parole o i grafemi. Nell’installazione site-specific Le parole che non ti ho detto, le matite colorate rappresentano le parole che non sono state decifrate correttamente dall’algoritmo di Google Translate, che sfuggono al controllo digitale e che rimangono “sospese” nell’aria e nello spazio, creando un ambiente tridimensionale e immersivo. Un telaio spaziale in cui le linee colorate delle matite si compenetrano le une alle altre, delineando volumi rettangolari attraverso sottili bordi colorati. L’installazione usa mezzi e materiali ludici (le matite colorate) per rendere manifesta una forma indefinibile, mutevole, fantasiosamente senza dimensioni, quale l’infinita estensione della mente umana che sfugge al controllo dell’intelligenza artificiale. Come nel film Matrix, lo spettatore può varcare quello spazio simulato e “giocare” o interagire con le matite così come giocherebbe con le parole, determinando un processo di immedesimazione e, dunque, di piacere estetico.
In entrambi questi lavori è evidente la volontà di superare il paradigma logico-sequenziale della mente alfabetica che si basa sulle tecnologie della scrittura a favore della mente digitale dominata dalle tecnologie digitali[2]. Attraverso le nuove tecnologie della comunicazione, l’uomo contemporaneo si avventura al di là dello spazio analogico, alfabetico e geometrico, ed entra nella vastità della mente digitale.
Angelo Demitri Morandini opera sui segni linguistici (grafemi, parole, simboli e dati) come un moderno bricoleur. Ne “Il Pensiero selvaggio” (1962), Lévi-Strauss recupera l’antico significato del verbo bricoler applicato al “gioco della palla e del biliardo, alla caccia e all’equitazione, ma sempre per evocare un movimento incidente”[3]. Utilizzato nelle arti e nella letteratura, bricolage significa “opera realizzata con cose disponibili” e, per estensione, “fare uso creativo e ingegnoso di qualsiasi materiale a portata di mano (indipendentemente dal suo scopo originale)”[4]. Lévi- Strauss contrappone il modo di comporre artefatti e testi del bricoleur a quello dell’ingegnere. Il primo combina e risignifica in maniera creativa gli oggetti che ha a disposizione, il secondo invece utilizza sistemi di regole predefinite. Quindi nella pratica del bricoleur è insita sia l’idea di “gioco”, di “azione creativa”, che quella di “movimento incidente” cioè casuale, inatteso, irregolare, che interrompe il procedere regolare di un’azione e dischiude risultati imprevisti, che spalancano anche le soglie della “sorpresa” e della “meraviglia”.
Possiamo ritrovare la figura dell’artista-bricoleur anche in altre due opere in mostra. La prima, Un rifugio per te, è una installazione composta da circa 500 tappi di penna Bic rossa collegati tra loro a formare una struttura sinuosa, flessibile e avvolgente. La scelta dei tappi rossi della penna Bic è determinata ancora una volta da un motivo “incidentale”, se non si considera che la penna Bic può essere considerata uno degli strumenti più iconici di scrittura. La regola del gioco qui consiste nell’adattarsi all’equipaggiamento di materiali di cui l’artista dispone e nel loro utilizzo strumentale al fine di creare, per il visitatore, uno spazio di rifugio e protezione delineato da una sottile linea rossa che taglia trasversalmente lo spazio, segno visivo evocativo di energia e movimento.
Sempre all’insegna del gioco del bricoleur è il secondo lavoro Capitale datocromico: eroi nei colori animati della Gig Economy, un oggetto da bricolage assemblato manualmente dall’artista e costituito da una struttura all’interno della quale un barattolo di plastica capovolto è installato al di sopra di una vecchia ventola di un computer. Quando la macchina automatica viene attivata, il barattolo rilascia, come un alambicco, gocce di colore nel campo d’aria sovrastante la ventola che le spara vorticosamente sul pannello di legno alle spalle, creando un dripping di stampo espressionista astratto che presenta una maggiore concrezione di materia nella parte retrostante il barattolo e che man mano si assottiglia ai lati esterni. Un’opera che si può leggere al di fuori dell’ordine di cose precostituite dall’artista o dalla tecnologia, una sorta di macchina cinetica che attraverso un “movimento incidente” (Lévi-Strauss), lascia un segno casuale e momentaneo nello spazio, così come il modello economico della “gig economy” è basato sul lavoro occasionale e temporaneo e non sulle prestazioni lavorative stabili e continuative. Un automa dal movimento ritmico e ipnotico, che in un certo modo simula il comportamento umano (la gestualità dell’Action Painting), ma il cui meccanismo al tempo stesso rivela aspetti di aleatorietà e imprevedibilità propri della macchina.
Quest’opera, fin dal titolo Capitale datocromico, anticipa una riflessione fondamentale nel progetto di Morandini: l’importanza attribuita ai dati, ai big data e alla data visualization (la visualizzazione grafica dei dati). Oggi viviamo in una società dell’informazione che sta progressivamente sostituendo i servizi all’industria. Il dato, il bit e quindi l’informazione sono la materia prima più preziosa che genera ricchezza. Lev Manovich ha sottolineato il cambiamento di paradigma rispetto alle società tradizionali e a quelle moderne, dove esistevano poche informazioni, ma narrazioni forti. Ora, attraverso il sistema telematico, si accumulano e si scambiano migliaia, anzi milioni di dati digitali. Manovich la chiama “logica dell’algoritmo”[5]. I dati costituiscono non solo informazioni ma anche valori perché favoriscono la circolazione del capitale finanziario e la sua valorizzazione. Per queste ragioni Morandini ha deciso di utilizzare, come punto di partenza per il suo ulteriore processo creativo, un libro fondamentale di Karl Marx: “Das Kapital” (Il Capitale) pubblicato nel 1867. La parola “merce” viene sostituita con la parola “informazione” (la vera merce del terzo millennio), in modo da attualizzare l’opera di Marx ed evidenziare l’importanza cruciale del dato come forma di capitale per la nostra società digitalizzata e informatizzata.
Continuando l’esplorazione delle connessioni tra parola scritta e immagine visiva, già intrapresa nel 2020/2021 con il progetto Dante Fluttuante, anche in questa occasione Morandini realizza una serie di grafiche digitali che utilizzano alcune parole (lavoro, valore, produzione, capitale, informazione, tempo) de Il Capitale di Marx come set di dati, interconnessi in nodi e gangli all’interno di una rete neurale configurata con le tecniche della Social Network Analysis e con il layout di Gephi Software. Ogni grafica rappresenta uno dei capitoli del primo libro de Il Capitale, e la disposizione dei nodi e dei collegamenti visualizza le interconnessioni concettuali che emergono dalla rete delle parole. Flusso e Forma: metamorfosi dell’Informazione è il titolo dell’installazione composta da venticinque immagini digitali le cui forme e figure evocano la morfologia di alcune piante, come l’infruttescenza del tarassaco, mentre la scelta dei colori si basa su cromie complementari come il viola, il verde, l’arancione e l’azzurro. Il flusso vorticoso e centripeto dei dati genera una morfologia biologica a ventaglio e dei pattern a raggiera che evidenziano lo sviluppo multiforme ma ordinato dell’algoritmo. Secondo la nuova religione del “datismo”, le stesse leggi matematiche che si applicano agli algoritmi computerizzati digitali si potrebbero applicare anche agli algoritmi biochimici. Quindi, non solo le parole, le informazioni e i dati, ma anche gli organismi viventi e le società complesse possono essere concepite come algoritmi biochimici. Qui non si tratta più di un “game of words” ma di una realtà fattiva in cui tecnologie digitali e algoritmi stanno ridefinendo i contorni non solo della condivisione dei dati e del consumo delle informazioni ma anche del tessuto socio-economico dell’umanità intera.
Angelo Demitri Morandini, con la sua ricerca, si interroga dunque sulle complesse relazioni tra linguaggio e dati, tra informazioni e algoritmi, tra accumulo di dati e la forza economica delle nuove piattaforme digitali che in pochi anni hanno raggiunto livelli superiori a quelli dei comparti tradizionali. Come sintetizza Mario Ricciardi: “I protagonisti della ‘rivoluzione digitale’ attribuiscono tutto il valore alla tecnologia digitale, ne occultano i meccanismi profondi e dominanti: è il potere dell’algoritmo. Sono i big data e, nel mercato dei consumatori, gli smartphone: la connessione vince sulla produzione. I mezzi di connessione dominano i mezzi di produzione”[6]. L’ “informazione” vince sulla “merce”.
[1] E. Claparède, Psicologia del fanciullo e pedagogia sperimentale, trad. it., Giunti-Barbera, Firenze 1955, pp. 123-124
[2] M. Ricciardi, Communico: Linguaggi, immagini, algoritmi, Tab Edizioni, Roma 2021
[3] C. Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 29.
[4] https://www.etymonline.com/it/word/bricolage
[5] L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002, p. 273.
[6] M. Ricciardi, Communico: Linguaggi, immagini, algoritmi, Tab Edizioni, Roma 2021, p. 18.
Tele Sociali fra linguaggio e Social Network Analysis
Teoria, metodo e contesto di un’opera d’arte collettiva
di Gabriele Lorenzoni
La Social Network Analysis (SNA), è una disciplina che si occupa di analisi dei dati e che utilizza le reti e la teoria dei grafi per comprendere le strutture sociali[1]. Per costruire grafici SNA, sono necessari due componenti chiave: attori e relazioni. Un esempio concreto e comune delle tecniche SNA è legato al mondo Internet: nella quasi totalità dei casi, le pagine Web si collegano e rimandano ad altre pagine, sul medesimo sito o su un altri. Questi collegamenti possono essere considerati relazioni tra attori (in questo caso le pagine Web, appunto). L’analisi delle reti sociali si è sviluppata a partire dai contributi di Jacob Levi Moreno, fondatore della sociometria, scienza che analizza le relazioni interpersonali[2]. Questa trova applicazione in diverse discipline, come la sociologia, l’antropologia, la psicologia e l’economia ed è impiegata nello studio di diversi fenomeni, dal commercio internazionale alla diffusione dell’informazione, dallo studio delle istituzioni al funzionamento delle organizzazioni, e si differenzia dalla ricerca sociale tradizionale per l’attenzione posta sull’influenza della relazione sociale sul comportamento collettivo.
Angelo Morandini, sfruttando la propria formazione pluridisciplinare e stratificata, che spazia dalla filosofia all’ingegneria informatica, è impegnato nell’applicazione della SNA a processi creativi ed artistici, sia dal punto di vista dell’ampliamento delle modalità di rappresentazione di fenomeni complessi ed interdipendenti, sia come metodo per approcciare dal punto di vista teorico vari ambiti della speculazione filosofica, del processo culturale e della pratica artistica in senso lato.
Nella teoria delle reti sociali la società è vista e studiata come complesso intreccio di relazioni, più o meno estese e strutturate. Il presupposto fondante è che ogni individuo (o attore) si relaziona con gli altri e questa sua interazione plasma e modifica il comportamento di entrambi. Lo scopo principale dell’analisi di network è appunto quello di individuare e analizzare tali legami (ties) tra gli individui (nodes).
Se la SNA studia connessioni reali ma invisibili, rendendo manifesto quanto è celato, Angelo Morandini propone da anni, con un lavoro meticoloso e paziente che sa modificarsi nel tempo adattandosi ai contesti senza snaturarsi, l’opera d’arte collettiva detta Tele Sociali[3]. Queste si basano sulla semplicità di un codice esecutivo intuitivo e facilmente replicabile, che non necessita di perizia tecnica e che si adatta ad ogni contingenza sociale, economica, personale e di pensiero. Quello che viene a crearsi sulla tela sono connessioni, nodi, punti di contatto nello stesso tempo teorici e concreti, in un continuo cortocircuito fra il fare (l’atto dello scrivere/disegnare) e il porsi in relazione (lo stare insieme, condividere, cooperare): “In questo momento storico le connessioni costituiscono un patrimonio relazionale, economico e sociale assolutamente prioritario a livello globale, caratterizzandosi come motore invisibile di ogni attività nell’era iper-globalizzata e iper-connessa che si è schiusa in coincidenza con il cambio di millennio”[4]. Ad ogni persona che voglia partecipare alla performance diffusa delle Tele Sociali è richiesto di tracciare un segno triangolare di dimensioni contenute: ogni triangolo che va ad aggiungersi al primo deve nascere a partire da un lato del triangolo precedente, senza modificarne le proporzioni. La concatenazione di triangoli si muove libera nello spazio bidimensionale della tela. Sta all’esecutore dei triangoli decidere se e quando far interagire la propria proiezione di triangoli con quella delle altre persone coinvolte. Il punto di contatto eventuale dovrà seguire regole analoghe e condivise e sfruttare pertanto almeno un lato dei triangoli già esistenti. Il triangolo è un vettore astratto di significati, che richiama alla mente una intricata rete di connessioni, metafora del Web ma anche della società globalizzata post-post moderna. Ma le Tele Sociali non sono fatte di triangoli in quanto figure geometriche, bensì di partecipazione. Essi si inverano nel loro punto di contatto (o nodo), che è la connessione fra la rete triangolare (che assomiglia volutamente alla rete neurale) di una persona con la rete della persona seguente, che interviene lasciando una traccia della propria identità.
L’interazione avviene in maniera contestuale (più persone lavorano alla stessa tela contemporaneamente) o consequenziale (ogni persona agisce da sola su una tela su cui esistono già delle reti e alla quale altre verranno aggiunte) in base alla tipologia di applicazione e di gestione dell’opera decisa di volta in volta dall’artista, sulla base di condizioni di fruizione, azione, pubblico, culturali, addirittura sanitarie: nel corso dei lockdown legati alla pandemia Covid 19, che hanno reso necessario l’adattamento del format con la nascita delle Tele Sociali a distanza, i contributi sono stati realizzati da ogni persona in modo autonomo e distanziato e poi spediti via posta all’artista, che si è assunto la responsabilità di copiare i frammenti di tela in una tela condivisa, facendo sintesi e generando connessioni.
Se molte e variegate possono essere le modalità di esecuzione delle Tele Sociali, infinite sono ovviamente le declinazioni spaziali, temporali e formali delle stesse, pur restando all’interno delle regole di base imposte dall’artista. L’importanza del processo, partecipativo e a tratti quasi festoso / liberatorio / curativo (questo aspetto ben testimoniato dalle molte immagini di documentazione presenti in questa pubblicazione), non deve però allontanare dalla percezione dell’esito ultimo: le Tele Sociali non sono infatti la decantazione materiale di un atto che è esso stesso la vera e unica opera d’arte (come avviene in molta arte concettuale) e non sono nemmeno la mera testimonianza tangibile di un atto performativo. Le Tele Sociali sono a pieno titolo opere d’arte, tele dipinte (o, meglio, disegnate) con una loro potente e percepibile aura artistica, formalmente compiute e tecnicamente ineccepibili. Certo, la componente legata al caso, che sfugge al controllo diretto della razionalità dell’artista è assolutamente preminente, anche nelle versioni in cui l’artista si occupa in prima persona della copiatura dei frammenti realizzati in remoto da persone a distanza. Questo non inficia però la natura artistica dell’opera, tanto quanto la gocciolatura incontrollata (e incontrollabile) non danneggia l’opera astratto-informale o l’azione erosiva degli elementi naturali non distrugge l’opera del Land-artist, anzi la invera, o l’imprevisto rumore di sottofondo non impedisce al performer di compiere l’azione artistica. Le Tele Sociali sono molte cose: la natura pulviscolare di quanto possiamo ammirare sulla superficie, che rimanda alle immagini telescopiche delle galassie, pare animarle di infinite chiavi di lettura. L’aggettivo “sociale” non deve però orientare lo sguardo nella direzione sbagliata: fare un’arte sociale, impegnata, inclusiva, partecipata e accogliente non significa fare un’arte di serie B. Il processo partecipativo o talora addirittura didattico/laboratoriale non coincide in alcun modo con un abbandono delle velleità artistiche[5].
Ci sia consentito un parallelismo rilevante, benché azzardato: Joseph Beuys elaborò negli anni un concetto molto allargato, politicizzato e aperto di arte, che si può sintetizzare nella celeberrima etichetta di Scultura Sociale[6], ovvero un’azione artistica che non ricorre unicamente ai materiali fisici e diviene, o può divenire, un discorso sull’arte non autoriflessivo bensì incentrato su tematiche sociali. L’artista accantona gli elementi tradizionali, la materia stessa, e fa della voce e della parola il suo strumento di creazione ed espressione principale, mettendo radicalmente in discussione il concetto tradizionale di arte che si focalizza sull’autorialità e sulle singole opere materiali degli artisti, rendendole feticci e oggetti commerciali: “Ho scelto l’arte , o meglio un’arte che mi ha condotto a un concetto di scultura che comincia nella parola e nel pensiero, impara a costruire nel linguaggio concetti che sappiano trasferire e trasferiscano nella forma il sentire e il volere”[7]. La Scultura Sociale di Beuys è intesa come un processo permanente di continuo divenire dei legami ecologici, politici, economici, storici e culturali che determinano l’apparato sociale, nel quale l’artista si serve di materiali non ortodossi, come parole, gesti, suoni e comportamenti, al fine di attuare una nuova relazione tra esseri umani, in grado di innestare riflessioni e accendere la creatività.
Senza forzare la mano su parallelismi asincroni, considerata anche la distanza storica fra gli anni Sessanta e gli anni Venti del nuovo millennio, appare interessante focalizzare l’attenzione sull’uso del linguaggio. Se per Beuys è evidente (la parola diviene scultura), per Morandini dobbiamo compiere un percorso di rilettura delle Tele Sociali, che egli stesso ha reso manifesto in una recente applicazione delle stesse ad un campo sperimentale e laboratoriale: in collaborazione con l’Area Educazione del Mart e la Laba | Libera Accademia di Belle Arti del Trentino è stata infatti progettata e realizzata una nuova font, partendo dalle Tele Sociali[8]. Per enfatizzare l’aspetto della scrittura che sta alla base delle tele, intesa in maniera ossimorica sia come automatismo che come regola (mano e triangoli), l’artista ha sviluppato con ragazzi e ragazze della LABA un progetto atto a costruire una font del tutto nuova: partendo dal pattern a triangoli, ogni studente/studentessa ha creato una lettera, che rispettasse la semplice regola di stare all’interno di una casella e di garantire delle “connessioni” con le altre lettere, attraverso quelle che sono state definite “porte e finestre”, decise mediante un processo partecipativo. In nessun modo la nuova lettera doveva avere rimandi formali alla matrice alfabetica tradizionale. Così facendo si è generata una nuova font, del tutto astratta e non decodificabile, se non mettendosi in una condizione di ricezione libera e aperta di un messaggio che vuole andare oltre il contenuto testuale. L’idea è di costruire un nuovo linguaggio, che vada oltre la semantica, per esprimere i concetti e le sensibilità del mondo contemporaneo.
L’insistenza sul tema del linguaggio non è casuale ed è un filo rosso che connette buona parte della ricerca artistica con vocazione sociale dagli anni Settanta in poi: il discorso sull’arte diventa arte e l’arte diventa il linguaggio con cui esprimersi su temi che intersecano la vita quotidiana. Prendiamo in prestito dal filosofo Emanuele Severino la definizione secondo cui “il linguaggio non è soltanto uno dei mezzi con cui si interpreta: è una delle forme originarie dell’interpretare”[9] per proseguire nel nostro ragionamento e ampliare lo sguardo ad altre opere recenti di Angelo Morandini, nelle quali ricorre l’insistenza sul linguaggio, talvolta scomposto (e ricomposto) nelle sue componenti di base, talvolta tematizzato, talvolta utilizzato come elemento alla radice della costruzione di senso dell’opera.
Pilastri teorici su cui poggia la ricerca dell’artista sono gli scritti di John Searle, in particolare La costruzione della realtà sociale[10], saggio nel quale il filosofo definisce il concetto di “oggetti sociali”. Per Searle tali oggetti istituiscono la realtà comune attraverso il linguaggio, strumento attraverso cui si compiono gli atti dichiarativi, ovvero quelle espressioni che rendono un pezzo di carta colorata (x) una banconota (y) in un contesto di accordi tra le parti quale può essere uno Stato (c): “x diventa y in c”[11]. Queste dichiarazioni crearono soggetti a cui Searle attribuisce la definizione di poteri deontici: questi sono il vero collante delle civiltà. Siccome gli oggetti sociali si creano grazie al linguaggio è evidente l’importanza e il controllo del vocabolario: “Tutti gli oggetti istituzionali umani sono funzioni di status e vengono generati da dichiarazioni di funzioni di status e tutte queste dichiarazioni creano poteri deontici. I poteri deontici, senza eccezioni alcuna, ci danno tanti diversi desideri, tante ragioni tutte interdipendenti che fanno riferimento alla razionalità dell’essere umano. Questo secondo me è il collante che tiene insieme le varie civiltà umane. Tutti noi siamo appunto “incollati” all’interno di un sistema di relazioni veramente molto, molto complesso. Siete mogli, mariti, siete padri, madri, figli o figlie, siete membri di alcuni partiti politici piuttosto che di diversi club. Ebbene, tutte queste sono funzioni di status e tutte queste creano poteri deontici, tutte quante queste istituzioni vi danno desiderio di agire per azioni o motivi indipendenti. Facciamo ancora un altro passo in avanti, nel senso che non solo le civiltà umane sono create da dichiarazioni di funzioni di status, ma addirittura sono mantenute in esistenza proprio da rappresentazioni ripetute che hanno una forma logica. Ancora una volta torniamo alle dichiarazioni di funzione di status. Ecco perché tutti i movimenti rivoluzionari, hanno cercato di controllare il vocabolario. Per modificare il sistema delle funzioni di status bisogna alterare letteralmente il vocabolario. Perché proprio il vocabolario va a creare appunto le funzioni di status. Pensiamo ai movimenti rivoluzionari: quando, ad esempio, i bolscevichi presero il potere in Russia, una cosa fondamentale fu modificare alcune terminologie, ad esempio tutti quanti dovevano essere chiamati “compagni e compagne”. Questa è una modalità di cancellare il sistema zarista di funzioni di status, creando quindi un nuovo tipo di Stato”[12].
Gli oggetti sociali, tanto quanto le Tele Sociali di Angelo Morandini, non possono esistere senza il linguaggio perché tutti gli oggetti sociali dipendono da convenzioni ed accordi che fanno gli uomini tra di loro: “A mio avviso essere attenti al linguaggio, che è la ragione alla base della mia ricerca artistica, e alle sue modificazioni è utile a conservare il concetto di libertà. Il senso della creazione della font delle Tele Sociali (atto linguistico) è appunto un atto dichiarativo con tutto ciò che ne consegue”. L’importanza del linguaggio è fondamentale, nel senso che è lo strumento attraverso cui si rendono possibili gli atti dichiarativi: “Da questo sono partito, notando come l’artista o meglio il sistema dell’arte abbia la capacità di trasformare oggetti di uso quotidiano in opera d’arte. Ad esempio, un cumulo di caramelle, diventa un’opera, in una galleria d’arte[13]. Questa trasformazione avviene attraverso il linguaggio, nello specifico mediante dichiarazioni, e il primo soggetto a dichiarare il cambiamento di status di quel particolare oggetto proprio è l’artista. L’artista, il curatore, la galleria, il museo, gli storici dell’arte, i collezionisti, gli amanti dell’arte, i giornalisti, tutte queste persone attraverso il linguaggio e le loro dichiarazioni rafforzano o erodono lo status dell’oggetto trasformato in opera d’arte”.
Risalendo agli albori della ricerca dell’artista, incontriamo un lavoro già particolarmente significativo in questo contesto: DIALOGATE. Si tratta di una semplice azione linguistica che genera uno spazio concettuale vocato al libero pensiero: “DIALOGATE è l’anagramma di Alto Adige: ho voluto giocare con il nome di una celebre testata giornalistica regionale per immaginare un giornale nuovo, uno spazio bianco, libero, che si adatti alle esigenze dei liberi pensatori”. Anche DIALOGATE ha un nucleo processuale e partecipativo: “Ho realizzato una serie di questi giornali e li ho lasciati alle intemperie, in spazi pubblici o nella natura, aspettando che il tempo e avvenimenti incontrollabili li scrivessero. Li ho inoltre distribuiti a famiglie di varia estrazione e spesso si è generato un interessante cortocircuito, con i bambini e le bambine che hanno spontaneamente cominciato a inventare notizie, fingendo di leggerle dal giornale bianco”. Si tratta di un invito al dialogo che costituisce uno degli elementi alla base delle Tele Sociali, che per loro natura sono spazio di condivisione di pensiero.
La recente mostra personale dell’artista intitolata Crazy Pink Propaganda[14] ha messo al centro una riflessione sul linguaggio inteso nell’accezione di difficoltà di distinguere verità da finzione, narrazione di fantasia da fatto storico, cronaca da fake news: “La propaganda si attua mediante precise e studiate tecniche di comunicazione, quindi attraverso l’adozione di un registro di linguaggio che possa influenzare il pensiero altrui”. L’opera 11 principi è un atto di consapevolezza verso i cambiamenti storici che passano attraverso un cambiamento di linguaggio e aiuta a ragionare sulla complessità delle cose. Il gerarca nazista Goebbels, Ministro della Propaganda, non scrisse infatti gli 11 Principi come li conosciamo: sull’argomento vi furono studi dello psicologo Leonard William Doob[15] e del saggista Jean Marie Domenach[16]. La cosa sorprendente è come sia la semplificazione dell’epoca digitale ad aver generato la sintesi che ha definito gli 11 Principi come testo idiografo di Goebbels. Morandini gioca sul sottile confine fra realtà e menzogna, agendo sul testo e sul concetto di autorialità, ripercorrendone le argomentazioni, cercando di depurare in maniera simbolica lo scritto: “Ho montato il testo degli 11 Principi su dispositivi luminosi, come se la luce potesse purificarlo”.
Fragile Babilonia è un lavoro tassidermico, che consiste nella collezione e organizzazione di centinaia di punti metallici utilizzati: ogni elemento è generato da una graffatrice che “spara” le sue graffette su un sasso. Con il lento consumarsi della pietra ad ogni colpo muta la superficie su cui impatta la graffetta, che in modo casuale assume forme sempre diverse. Lo scopo della graffatrice è ancorare una superficie ad un’altra ma il tentativo ossessivo di unire la cambretta con il sasso genera un fallimento. Da questo uso di forze opposte si genera una parte metallica esausta e inutilizzabile e fini pratici, che l’artista raccoglie pazientemente e colleziona. Ogni punto metallico così sradicato dal contesto e ricollocato, assume ora un altro aspetto, divenendo parte di un alfabeto del tutto casuale: l’immagine dei punti metallici rimanda ad indecifrabili rune celtiche: “In un mondo in cui siamo sommersi da informazioni e i mezzi di comunicazione proliferano, rischiamo di naufragare in una solitudine esistenziale, incapaci di comprenderci in una sorta di Babilonia contemporanea”.
Le parole che non ti ho detto mette al centro la negazione del linguaggio e il rapporto fra spazio personale e spazio architettonico condiviso. L’installazione altera lo spazio fisico e quello percepito, senza creare percorsi obbligati ma lasciando allo spettatore la facoltà di muoversi in maniera libera e cauta. La parola resta sospesa, lasciando spazio al silenzio, perché lo strumento stesso dello scrivere viene reso inutilizzabile, sospeso in aria: “Le matite, temperate da entrambi i lati, sono state appese a quelle che definisco altezze emotive, ovvero all’altezza che mediamente è compresa fra il cuore e la testa delle persone”.
Anche Rastrello delle idee si interroga e ci interroga strumento dello scrivere, decontestualizzandolo e ricollocandolo al fine di creare connessioni di senso non immediate, che stimolino il pensiero laterale[17]. In un cortocircuito fra funzione e pensiero, le matite colorate diventano denti di un rastrello da giardinaggio, utili a raccogliere le idee che, come foglie secche d’autunno, siano accidentalmente cadute al suolo.
Legami annoda le storie personali di centinaia di persone, attraverso un’installazione ambientale che sfrutta come infinitesimale mattoncino di base un elemento del tutto secondario, ma assolutamente presente nella vita quotidiana, ovvero il punto metallico utilizzato per tenere uniti i fogli che costituiscono i fascicoli delle pratiche amministrative: “ho chiesto a funzionari e funzionarie impegnati nel lavoro quotidiano presso il Palazzo di Giustizia di Trento di fare una speciale raccolta differenziata, tenendo da parte i punti metallici che vengono strappati per sgraffettare fascicoli col fine di fotocopiarne i singoli fogli o di comporre nuovi fascicoli da inviare a qualcuno o archiviare. Quelle pagine contengono la vita giuridica, economica, psicologica e sociale di migliaia di persone. Minuscoli punti metallici tengono insieme importanti storie umane che un’altra persona a sua volta dovrà leggere, analizzare, interpretare, giudicare. Vite collegate tra loro che formano una trama complessa di relazioni. La graffetta è proprio quel piccolo, cruciale elemento che tiene insieme quelle storie umane scritte su carta. Per questo motivo possono considerarsi frammenti rappresentativi di mondi e vite”.
Chiude il cerchio delle ricerche di Angelo Demitri Morandini (aprendo nel contempo lo spazio per nuovi fronti di indagine) l’ampio e complesso lavoro che prende complessivamente il nome di Dante Fluttuante[18], una summa delle percorso dell’artista attraverso i campi di filosofia, informatica, semiotica, semantica, Big Data Visualization, Social Network Analysis, teoria dei grafi, algoritmi, archivistica applicati all’analisi e restituzione artistica di uno dei testi più celebri e celebrati della letteratura mondiale, la Divina Commedia di Dante Alighieri, del quale nel 2021 ricorreva il settimo centenario della morte.
Il lavoro Ordine divino fa parte di un gruppo più ampio di lavori (video, stampe, installazioni e non fungible token) frutto di un’indagine sui big data in cui l’artista ha indagato il rapporto tra parola, testo, immagine e informazione e le loro connessioni all’interno del Poema dantesco. In Ordine divino, la Divina Commedia è stata atomizzata nei suoi elementi costituitivi di base, le parole, e ogni lemma è stato ordinato alfabeticamente dalla A alla Z secondo la modalità dell’archivistica e stampato su fogli di carta raccolti in uno schedario. Nel lavoro ci sono una serie di riferimenti espliciti all’archivio alla memoria, all’oblio e alla “neolingua” di Orwell[19] ed è stata la base di partenza per lo sviluppo di oggetti e video. Nell’ambito di un evento performativo, parte della lista è stata dettata all’artista che l’ha trascritta a mano su muro con una matita. Visivamente la forma ottenuta ricorda immediatamente un’onda sonora: il corpo dell’artista diventa un sismografo attraversato dal suono il cui ago, la punta della matita, registra su muro ciò che sente.
L’artista ha parallelamente lavorato ad un’ulteriore destrutturazione e ridefinizione del testo dantesco, operando una trascrizione visuale, che mette a frutto la conoscenza delle dinamiche di studio della SNA, ottenendo grafici e forme sferiche astrali, condensando la maestosità del testo dantesco in mappe create dalle interrelazioni rinvenibili nelle cantiche dantesche tra le 12.831 parole e 101.698 occorrenze che lo compongono. Sono le parole del Poema la materia plasmata dall’artista, dapprima isolate e poi riconnesse le une alle altre fino a disegnare una vera e propria “rete sociale”: “Ho immaginato e trattato le parole della Divina Commedia e delle sue cantiche – spiega Angelo Demitri Morandini – come gruppi di persone reali di una società immaginaria. Ho raccolto migliaia di dati e utilizzato moderni software di analisi sociale ottenendo figure che evocano il cosmo, le costellazioni e le cellule che richiamano l’origine della vita”.
Un testo poetico che diviene metafora di una società viva e attiva: ci torna alla mente la versione emendata da Maurizio Ferraris della massima derridiana: «nulla di sociale esiste fuori dal testo”[20].
[1] Cfr. S. Wasserman, K. Faust, Social Network Analysis. Methods and Applications, Cambridge University Press, 2012; J. Scott, P.J. Carrington, Social Network Analysis, SAGE Research Handbooks, 2011; E. Otte, R. Rousseau, Social network analysis. A powerful strategy, also for the information sciences, Journal of Information Science, n. 28, dicembre 2002, pp. 441–453.
[2] Cfr. J. Levi Moreno, Chi sopravviverà? Principi di sociometria, psicoterapia di gruppo e sociodramma, Di Renzo Editore, Roma 2017; A.A. Schützenberger, La sociometria, Armando, Roma 1975.
[3] Cfr. N. Loeser, a cura di, The social Art award 2021, Edition n.3, Institute for Art and Innovation, Berlin 2021 pp. 32-33.
[4] Le citazioni dell’artista nell’intero testo sono trascrizioni di numerosi colloqui e scambi di e-mail, avvenuti nel corso degli anni e prevalentemente nel periodo ottobre- dicembre 2021.
[5] Sull’argomento, rilevante è stato il dibattito Un nuovo ruolo sociale per l’arte?, coordinato da Francesco Scasciamacchia, tenutosi a Prato (Monash University) il 26 settembre 2015 nell’ambito del Forum dell’arte contemporanea italiana.
[6] Cfr. H. Stachelhaus, Joseph Beuys. Una vita di controimmagini, Johan & Levi Editore, Milano 2012; M. Buonuomo, a cura di, J. Beuys. Die soziale Plastik, catalogo della mostra (Napoli, Accademia di Belle Arti, 5 giugno – 10 luglio 1987), in “Napoli e dintorni – Informatore d’arte”, n. 8, giugno 1987, Amelio Editore, Napoli 1987; N. Schallenberg, On the sculptural power of language and its limits, in Starting from language. Joseph Beuys at 100, catalogo della mostra (Berlino, Hamburger Banhof-Museum, 13 giugno – 19 settembre 2021), Hatje Cantz, Berlino 2021, pp. 8-18.
[7] H. Stachelhaus, Joseph Beuys. Una vita di controimmagini, cit., p. 67.
[8] Il laboratorio Tele sociali: un lavoro di “arte relazionale”, a cura dell’artista Angelo Demitri Morandini, in collaborazione con Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (referente Annalisa Casagranda) e Laba Trentino (docente Simone Borioni), ha avuto luogo il 22 aprile 2021 all’interno del corso di Lettering.
[9] E. Severino, Testimoniando il destino, Adelphi, Milano 2019, p. 24
[10] J. Searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006.
[11] J Searle, Minds, Brains and Programs, in “Behavioral and Brain Sciences”, n. 3, 1980, pp. 419.
[12] Questa lunga citazione mi è stata segnalata da Angelo Morandini ed è stata trascritta dalla registrazione della lectio Oggetti sociali. La loro natura e il loro potere tenuta da John Searle domenica 16 settembre 2012 al Festival della Filosofia di Modena. Il video è di proprietà del Consorzio per il Festival della Filosofia. Cfr. J. Searle, Oggetti sociali. La loro natura e il loro potere, Collana Paginette, Consorzio festival Filosofia, Modena 2012.
[13] L’artista fa riferimento all’opera Félix González-Torres, Untitled (Portrait of Ross in L.A.), 1991, dimensioni variabili, Courtesy Art Institute Chicago.
[14] Crazy Pink Propaganda, a cura di Dora Bulart, Pergine Valsugana (Tn), Galleria Contempo, 10-27 luglio 2020.
[15] L.W. Doob, Goebbel’s Principles of Propaganda, in “The Public Opinion Quarterly”, vol. 14, n. 3, Oxford University Press, 1950, pp. 419-442.
[16] J.M. Domenach, La propagande politique, Presses universitaires de France, Parigi 1962.
[17] Cfr. E. de Bono, Il pensiero laterale, Rizzoli, Milano 2000.
[18] Mostra Dante Fluttuante, a cura di Dora Bulart, Pergine Valsugana (Tn), Galleria Contempo, con testo critico di Eliana Urbano Raimondi, 11 giugno – 9 luglio 2021; Installazione Dante Fluttuante in Piazza Dante a Trento, nell’ambito della mostra Dalle parole al bronzo, 2 luglio – 17 ottobre 2021.
[19] G. Orwell, 1984, Rizzoli, Milano 2021.
[20] M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma 2009, p. 360.
Le supernove dantesche di Angelo Demitri Morandini
Eliana Urbano Raimondi
La ricerca di parentele tra epoche della storia dell’espressione artistica è una tendenza innata nello studioso di tale ambito che spesso, quasi in ottica entropica, al riconoscimento in un’opera della singolarità dell’invenzione – ovvero di ciò che è “creato” – preferisce il più rassicurante reperimento in essa di elementi che la leghino al passato – ovvero ciò che è “trasformato” -, in una sorta di totalitarismo dell’Ipse dixit (Ipse fecit, in tal caso).
Che l’uso più o meno consumistico della citazione abbia dato luogo a revivalismi vari è cosa indubbia e storicamente accertata, come nel caso del fenomeno neogotico o ancora della persistenza di stilemi medievali in ambito espressionista e surrealista, avanguardie tra le più “emotive” del Novecento; ma senza precedenti, quindi davvero inopinabile sarebbe stata l’intersezione di un prodotto della cosiddetta Epoca di Mezzo con forme linguistiche tipiche della linea per così dire più fredda e razionale dell’Età Contemporanea. Un atto nuovo e creativo, che è esattamente quello messo in opera da Angelo Demitri Morandini, artista concettuale anomalo, meglio, poeta concettuale che, dall’aggressione analitica del poema dantesco, trattato come cavia laboratoriale, indifesa vittima di un sublime stupro algoritmico, ha dato vita a sibillini spaccati fotografico/iconologici del poema stesso. E qui, chiaramente s’intende, “fotografia” e “iconologia” hanno un etimo specchiato ovvero non più ad litteram “scrittura della luce” e “discorso sulle immagini” bensì, rispettivamente, “luce sulla scrittura/linguaggio” e “immagine del discorso/pensiero”. Fette bidimensionali di universi cifrati, criptiche filigrane geometriche (Parole di Dante) o, ancora, costellazioni biomorfe (Cellula di Dante), le opere di Morandini accendono una “luce”, appunto, sul lessico volgare trecentesco, restituitoci in forma di “immagine” di una rete di interazioni tra parole, entrate tra loro in contatto/collisione come vere e proprie persone facenti parte della medesima società. Per simili lavori di alto profilo tecnologico e probabilistico/predittivo, si potrebbe quasi parlare di “gemelli digitali” delle porzioni esaminate delle cantiche dantesche, loro doppi multimediali, se non fosse per il pressoché infinito potenziale rappresentativo offerto dalla Teoria dei grafi, grazie alla quale sono realizzati. Se, infatti, l’ininfluente posizione del punto/oggetto cosiddetto “nodo” nello spazio, così come l’interscambiabile curvatura di ciascun arco a collegamento dei vari “nodi”, determinano inquantificabili possibilità di varianti geometriche descrittive della medesima situazione, la scelta di una sola delle varianti dipende esclusivamente dalla sensibilità poetica dell’artista.
Le opere esposte in questa personale di Morandini, così, si configurano come arcipelaghi barocchi al contempo personali e archetipici, origami alchemici grafico-relazionali che rispecchiano tanto la Lirica del Poeta, quanto la Poesia dell’Artista, in un’utopica eppur verificabile (in quanto percepibile attraverso i sensi) corrispondenza fra Macro e Microcosmo. Un’esperienza che diviene multisensoriale nella video-installazione che dà il titolo alla mostra, Dante fluttuante appunto, le cui frequenze sonore – vere e proprie traduzioni di quelle visive, a loro volta espressione delle frequenze di parole nei versi della Divina Commedia – riecheggiano radiazioni da rumore di fondo di una galassia immaginifica, che intreccia la cosmologia medievale con quella contemporanea. Scenari effimeri ma immanenti che l’Uomo, affascinato da caso e kàos (elementi non banditi dal concettualismo di Morandini), accostandovisi ed essendone attraversato poeticamente, sente comunque prepotentemente di dover razionalizzare, ovvero misurare. Da qui, probabilmente, l’àncora simbolica, strumento cardine e tangibile, ma altrettanto “macchina inutile” del Metro Divino che, nel restituire all’Uomo la facoltà, pur illusoria, della rassicurante “-metrìa”, lo riposiziona (in una concezione quasi rinascimentale) al centro dell’universo stesso.
Analizzare, contare, schematizzare, quantificare diventano pertanto le uniche armi, coltelli con cui arrampicarsi sugli specchi dell’indefinito, ossessioni che turbano l’Uomo, antico così come contemporaneo; e se l’Artista, come in ogni epoca d’altronde, è il portavoce profetico della società in cui vive, sintomo evidente del suo (mal)essere e cartina al tornasole del suo umore, non può che trasformarsi egli stesso in strumento di misurazione. Ecco che vediamo un Morandini/sismografo in Onda sonora, enorme calligramma site specific che perpetua in altra forma l’indagine grafica dell’opera letteraria matrice della nostra Lingua: vero e proprio correlativo oggettivo della sinestesia, apoteosi del significante, allegoria visiva in grafite del poema allegorico per eccellenza, alambicco semiotico, tatuaggio sulla pelle della galleria.
Eliana Urbano Raimondi
Dialogo – Federico Mazzonelli/Angelo Morandini
FM Perchè il volo?
AM Ad un certo punto della mia vita ho sentito l’esigenza di fare cose che non avevo mai fatto prima. Non so precisamente perché ma è cosi. Le prime tre cose della lista erano: lanciarmi con il bungee jumping, volare e sparare con una pistola. L’anno scorso mi hai proposto di fare un lavoro sul volo. Mi è sembrato strano, non lo avevo mai fatto. Ho sempre tenuto volo e arte distinte tra loro. Mi sono messo in gioco e ho appreso che attraverso il volo si possono indagare alcune problematiche classiche dell’arte, lo spazio, la percezione la prospettiva e altre proprie dell’arte contemporanea, l’ossessione, il limite, l’ansia il fallimento.
FM L’idea del volo in effetti è nata da un fattore contingente e in stretta relazione alla progettualità di Der Blitz 2015; il volo è divenuto quasi uno “strumento” per narrare il paesaggio, e ciò che mi interessava era capire se chiamando un artista, te nello specifico, il volo potesse tornare invece ad essere un elemento dello spazio che chiamiamo paesaggio, la cui natura è molteplice e mai univoca. Ricordo che stavi sperimentando la possibilità di far scorrere una serie di suoni lungo una lastra di vetro, sotto forma di onde magnetiche, di leggere vibrazioni, come se la lastra fosse un foglio di carta, bianco, attraversato dalle linee di un disegno. Il disegno mi ha sempre affascinato, per la sua autosufficienza d’idea che diventa forma, di segno che si accontenta della sua leggerezza, e che rinuncia ad ogni enfasi legata alla materia. E’ in quel momento che è iniziato il progetto dal quale poi è nato il lavoro che hai portato al museo. Me ne vuoi parlare?
AM Ricordo perfettamente quel momento, luce, estate, studio di Pergine, pavimento in legno, avevo imparato ad “ascoltare” le immagini e ti ho chiamato. Un lavoro sinestetico puro. C’era una videoproiezione The Bar: una barra grigia che si muoveva su uno sfondo verde, un movimento ritmico preciso e ipnotico. Un giorno ho provato ad attaccare il cavo video del monitor ad un box audio ed ho scoperto che era possibile ascoltare ciò’ che si vedeva a video. Da li’ è partita una ricerca ed ho appreso che le immagini digitali che vediamo a monitor sono composte da tre flussi di colori RedGreenBlue. Ogni flusso di colore è semplicemente energia e precisamente energia elettrica in movimento cioè variazione di corrente. Attaccando un flusso di colore, ad esempio il Red, ad un box audio è possibile ascoltare il colore di quell’immagine. Quando sei venuto tu stavamo ascoltando il colore rosso del video The Bar. Ho poi costruito un box audio rudimentale, una spirale di rame con all’interno un magnete, e l’ho poggiato su una lastra di vetro. In quel momento il flusso del colore rosso è diventato vibrazione della lastra che a sua volta ha generato vibrazioni sonore.
FM Il volo, il disegno, la lastra di vetro attraversata dalla vibrazione, sono tutti elementi che ritroviamo nell’installazione che hai realizzato per il Mag; che relazione si sviluppa tra di loro, dal piano fisico a quello simbolico, all’interno dei questo lavoro?
AM Tutta l’installazione di basa su un grosso e madornale errore tecnico: il cavo video è nel posto sbagliato; nel dettaglio: il lettore DVD ha due uscite video; una è stata usata per collegare lettore con videoproiettore , l’altra collega il lettore all’amplificatore audio questo è l’errore. Mentre vediamo un video di volo in parapendio e una mano che prova a disegnare un qualche cosa su una pallina da ping pong che galleggia in aria, ne possiamo anche ascoltare la trasposizione in forma sonora. immagini e onde sonore sono epifenomeni diversi di una stessa cosa: l’energia. La lastra di vetro è sempre al limite della rottura rischiando di frantumarsii in mille pezzi. Per usare una metafora è come prendere dell’acqua (la corrente) si può’ mettere in un bicchiere (monitor) o in una brocca (box audio) l’acqua prenderà la forma del proprio contenitore. Simbolicamente la video-installazione non ha alcun significato ma ti posso raccontare delle cose. Dopo aver fatto il volo io e Plamen, un mio amico artista bulgaro che mi aiutato a montare il video. Le immagini erano ottime, ma volevo una qualche idea che spezzasse la monotonia. Mi è venuto in mente un gioco che facevo da piccolo, ho preso un phone e una volta acceso ho posizionato una pallina da ping all’interno del flusso d’aria. Vedendo quella pallina bianca che galleggiava mi è nato un istinto irrefrenabile di scrivere qualcosa. ma cosa? Quando ho cominciato a toccare la pallina con la penna è diventato impossibile tracciare delle linee sicure, più’ ci provavo e più’ questa si muoveva all’impazzata. ho cominciato cosi a giocare con questa pallina attraverso la penna, nessun progetto solo improvvisazione. Ho provato e riprovato a scrivere e a disegnare finché’ la pallina è diventa un insieme di tantissimi tratteggi, quasi tutta nera. Alla fine non ho scritto neanche una parola e non ho disegnato alcun che di definito e la pallina è diventata il documento di questo fallimento.
FM ll tuo lavoro è molto articolato, il ricorso a discipline canoniche come il disegno o la scultura si affianca a lavori nei quali ti rivolgi alla tecnologia, non tanto per sfruttare le sue possibilità di spettacolarizzazione, quanto per indagare i suoi funzionamenti interni, spesso agendo su di essi al fine di creare situazioni di sospensione, di messa in dubbio e di “stallo” dei loro linguaggi, aprendo in tal modo possibilità di riflessione sul linguaggio tout-court e sui processi di comunicazione tra individui, e tra individuo e mondo. Da un lato sviluppi opere che hanno un carattere quasi tautologico, come il generatore di frasi casuali esposto a Kunstart, o il video sulla catena binaria, dall’altro realizzi progetti nei quali la partecipazione del pubblico è di fondamentale importanza per la loro riuscita e da’ il senso all’opera stessa, come nelle Tele sociali o in installazioni che devono essere partecipate, penso al Germogliatore. Quali sono i percorsi e le necessità che legano questi lavori ?
AM Il linguaggio mi ha sempre affascinato, sia da un piano sintattico che semantico. Questo è sintetizzato abbastanza chiaramente nel lavoro catena binaria. Qui ho giocato con la grammatica del più elementare linguaggio che l’uomo conosce, quello binario, per costruire una struttura composta da punti e linee. La struttura si muove in uno spazio quasi privo di gravità e tenta, senza successo, di comporre delle lettere continuando a collassare su se stessa. Alcuni filosofi lo chiamano il muro del linguaggio. Ciò che ci permette di comprenderci ma che anche ci separa dagli altri. È un po’ come la pelle che ci unisce e ci separa dal mondo . Il linguaggio è sicuramente un elemento guida della mia ricerca. Un linguaggio fatto di segni, a volte ermetico, freddo,razionale, asettico, altre volte imprevedibile, che diventa dialogo o meglio una promessa di dialogo come accade nelle tele sociali. Partendo da un modulo triangolare, ho invitato collaboratori estemporanei a costruire uno composizione astratta che si è sviluppata in modo imprevedibile, rendendo ogni partecipante protagonista di un processo creativo partecipato, in una dimensione sociale. Accade che in uno stesso spazio possano convivere tracce di vite diverse, ideologie contrastanti, pensieri incompatibili. Il lavoro è semplicemente stato un invito alla possibilità. Quando parliamo di linguaggio è molto intuitivo parlare anche di scrittura. In molti miei lavori sono presenti oggetti che scrivono. Penso a No work Today: 500 bic tenute insieme da un fascia. La maggior parte delle penne hanno la punta rivolta verso chi le guarda, altre sono capovolte e si forma così la scritta “no work Today” con il classico tappino rosso della bic. Questa scultura appartiene ad un gruppo di lavori nati per combattere il grigiore dell’ufficio, un lavoro che guarda alla burocrazia come fonte di ispirazione. Che rapporto abbiamo con gli oggetti che ci circondano ? Cosa sono gli oggetti per noi? Cosa rappresentano? Che differenza c’è tra oggetto e strumento? L’oggetto è inflazionato, è usato, è collezionato, siamo passati dall’utensile all’oggetto,ma quale differenza c’è tra i due? Penso all’installazione Le parole che non ti ho detto fatta ad Upload project. 700 matite sospese 5 km di filo e 200 m di spazio e di vuoto racchiuso. Un’installazione nata da un mio trascorso, quindi direi che un altro elemento da cui nascono i miei lavori sia il mio intimo. Alla fine forse l’unico elemento della mia ricerca è il mio vissuto quotidiano.
FM Mi viene in mente il teatro di Ionesco, apparentemente ricostruzione grottesca e paradossale di caratteri e situazioni, in realtà portatore sano di qualcosa di più impegnativo e in fondo di più tormentato anche perché inesauribile, la ricerca del senso dell’esistenza e di ciò che la rende tale; luoghi, oggetti, parole, e gli effetti delle loro infinite possibilità combinatorie. Un frammento di dialogo tratto dalla Cantatrice calva credo possa svolgere la funzione di chiosa finale del nostro breve dialogo. Signora Smith E’un bravo medico. Si può avere fiducia in lui. Non ordina mai dei rimedi senza averli sperimentati prima su di sé. Prima di far operare Parker, ha voluto farsi operare lui al fegato, pur non essendo assolutamente malato. Signor Smith Come si spiega allora che il dottore se l’è cavata, mentre Parker è morto? Signora Smith Evidentemente perché sul dottore l’operazione è riuscita, mentre su Parker no. Signor Smith Quindi Mackenzie non è un bravo medico. L’operazione avrebbe dovuto riuscire su tutti e due, oppure tutti e due avrebbero dovuto soccombere. Signora Smith Perché? Signor Smith Un medico coscienzioso dovrebbe morire insieme con il malato, se non possono guarire insieme. Il comandante di una nave perisce con la nave, nei flutti. Non sopravvive mica. Signora Smith Non si può paragonare un malato ad una nave. Signor Smith E perché no? Anche la nave ha le sue malattie; d’altronde il tuo medico è sano come un pesce; ragion di più, dunque, per perire insieme col malato come il comandante con la sua nave . Signora Smith Ah! Non ci avevo pensato…forse hai ragione…E allora cosa si deve concludere? Signor Smith Che tutti i medici sono ciarlatani. E anche tutti i malati. Solo la marina è sana. In Inghilterra.
Mente in movimento
Lo spazio sospeso di Angelo Morandini
A cura di Federica Giobbe
“Tutta l’arte,dopo Duchamp,
è concettuale per natura,
perché l’arte esiste solo concettualmente”
J.Kosuth
Angelo Morandini è un artista sensibile, rigoroso, curioso, capace di coltivare in maniera costante il proprio lavoro artistico, trovando sempre il mezzo più affine alla sua ricerca formale del momento.
Da anni lavora senza sosta mettendo in scena opere scultoree e bidimensionali, in apparenza somiglianti ad oggetti di uso comune; ma, in realtà, travestite esternamente e traslate concettualmente all’interno di un sistema di segni ed “immagini chiave” di valore contrastante.
Scevro da ogni pregiudizio o formalità accademica, Morandini lascia libero sfogo alla sua fantasia, percorrendo i sentieri tortuosi e mai scontati della sua mente, per approdare a nuove concezioni stilistiche ed espressive. In ogni suo elaborato creativo (che sia un’installazione, una programmazione o un disegno); è evidente un chiaro rimando al gioco linguistico tipico del concettualismo anni 70 dove, come notava in un suo aureo libretto Sol Le Witt: “L’idea, il concetto, sono l’aspetto più importante del lavoro di un artista”. E dove tutte le programmazioni e le decisioni stilistiche sono stabilite in anticipo, mentre l’esecuzione diviene un dettaglio…L’arte, così, diventa una macchina che crea arte”.
Di fronte ad una qualsiasi opera di questo giovane artista trentino, lo spettatore viene messo in guardia attraverso le armi del paradosso, della critica e dell’ironia. Morandini, infatti, attua un’arte non formalista, “morfologica”, ma piuttosto un’artisticità depurata da qualsiasi compromissione e restituita alla sua formalità più vera e concreta.
Ne sono un esempio le tramutare di segni e figure geometriche a china che seguono imperterrite ed ordinate il flusso dell’accumulo e dell’ossessione, divenendo vere e proprie ragnatele emozionali che possono essere tessute da tutti coloro che ne sentono il desiderio; in una sorta di “opera d’arte allargata”ad interazione sociale e psicologica. In ogni tramatura disegnata vi è un attento posizionamento degli elementi grafici secondo un personale schema di pensiero; dove tutto assume un senso criptico, quasi cifrato (probabilmente memorie delle esperienze lavorative passate in qualità di consulente giuridico nei tribunali); senza mai dimenticare l’importanza della presenza della casualità. Ogni persona che interagisce con l’opera, trova il proprio spazio e la possibilità di lasciare un segno di sé che perduri nel tempo, quasi come una dichiarazione d’identità.
Affidandosi ad un’iconografia a tratti remota, utilizzando tecniche apparentemente “minori”, scegliendo uno stile immediatamente comprensibile; Morandini narra un’epoca mai conclusa nella quale gli esseri umani sperimentano se stessi e gli altri ed, ancora una volta, l’artista dà le coordinate, indirizza, e tende, in questo suo particolare tipo di ricerca mnemonica, a porre in evidenza i processi mentali che stanno a monte della creazione artistica in cui si tende a ridurre al massimo l’ingombro sia fisico che emotivo dell’opera stessa.
L’artista , in tal senso, si fa strumento per stimolare il cuore e la mente dello spettatore; l’emotività contrapposta alla razionalità; offrendo una possibilità per riflettere ed attivare così i sensi di chi entra in contatto con il suo mondo .
Tutti i suoi particolari disegni nascono dall’animo, sono vere e proprie teorie espressive scritte abbozzando, durante la giornata, idee e sensazioni. Osservando i suoi taccuini (frammenti di esistenza e quotidianità), si può comprendere così la sua filosofia, il suo modo personale ed intimissimo di interagire col mondo e con la vita.
Attivo ormai da anni in un ambito che coinvolge sensibilmente il rapporto tra arte, natura e scienza, Morandini assembla insieme elementi naturali e artificiali, usando con ampio interesse l’informatica ed il suo linguaggio matematico.
“Ho sempre subito il fascino del linguaggio binario dei computer e, occupandomi per diversi anni di computer grafica e sistemi informatici, ho sentito il bisogno di sperimentare nuove suggestioni , unendo l’arte d’impronta concettuale che mi appartiene con sequenze di immagini programmate, in video/programmazioni digitali.”
Alcune installazioni dell’artista (di matrice WebArt ed Optical), nascono come possibilità di indagare temi sociali attualissimi utilizzando un linguaggio altrettanto moderno. Non imprigionato da definizioni ed in continua ricerca stilistica, l’artista di Trento tende mentalmente ad accorciare le distanze tra sé e l’altro senza mai abusare dei numerosi effetti grafici a sua disposizione, instaurando semplicemente un sensibile rapporto tra spazio, opera e fruitore. Elementi tecnologici si fondono con elementi naturali, in un coontinum di esperienze di arte visiva. Opere in cui Tutto diviene precario, e l’instabilità e l’incertezza ne sono attive protagoniste. In bilico tra immobilità e flessibilità, tra fissità ed equilibrio precario; metafore di una condizione tipica dei nostri tempi.
Così, partendo da sé, dalle proprie ideologie e sensazioni personali, Morandini amplia il suo orizzonte creativo fino all’Uomo come entità individuale, unica ma simile; in cui la semplicità estetica quanto la complessità formale di ogni opera esposta, inducono lo spettatore ad abbandonarsi ad una complicità emotiva che lenisce il turbamento provocato dal tempo che scorre e che, inevitabilmente, ci accomuna.
Federica Giobbe
Interviste (Selezione)
QUANDO IL LINGUAGGIO CORTOCIRCUITA. INTERVISTA AD ANGELO DEMITRI MORANDINI
Gabriele Salvaterra SETTEMBRE 2023
Intervista di Gabriele Salvaterra su Angelo Demitri Morandini
Ha aperto lo scorso 14 settembre a Milano, presso Manuel Zoia Gallery, l’ultima mostra personale di Angelo Demitri Morandini. Un debutto milanese che ha offerto al pubblico i molti livelli della ricerca dell’artista, un lavoro molto ampio di stimoli ma allo stesso tempo decisamente coerente nello stabilirsi all’interno delle coordinate di linguaggio, interazione, manipolazione, ogni volta portate al loro punto critico di rottura. Come scrive Chiara Canali, curatrice della mostra, ci si trova infatti davanti a “un atto estetico che si configura come processo che consente di mettere in luce alcuni nonsense o alcune fratture nell’odierna società della comunicazione e dell’informazione”. Ne abbiamo parlato direttamente con Morandini.
Arrivi da tre anni intensi che a partire da Dante fluttuante, passando per le macchine cinetiche di Ex Machina e molti altri progetti, ti hanno portato a questa mostra da Manuel Zoia Gallery. Si tratta di un progetto in cui ricapitoli i tuoi raggiungimenti o è già un nuovo inizio verso nuove ricerche?
Questa mostra, Languag* Game of Words, credo rappresenti un punto culminante nella mia ricerca artistica, un capitolo che sintetizza le esperienze e le esplorazioni di progetti passati. È il risultato di un percorso lungo che ho intrapreso come artista concettuale, filosofo e ricercatore. Le linee di forza del mio lavoro artistico, incentrate sul linguaggio, sulla manipolazione delle parole e degli oggetti e sulle interazioni umane, convergono in questa mostra. Come è avvenuto anche in progetti precedenti, ho cercato di mettere in evidenza le stranezze e le fratture nella società moderna della comunicazione e dell’informazione.
In Languag* Game of Words, mi concentro nuovamente sul linguaggio, ma questa volta partendo dal grafema come elemento fondamentale. Attraverso progetti come Motus Liber. Authority of Symbols: The Manipulative Power of Algorithms e Le parole che non ti ho detto, cerco di sfidare il paradigma logico-sequenziale del pensiero alfabetico, spingendo verso una mente digitale governata dalle tecnologie digitali.
Questa mostra rappresenta un passo avanti nella mia ricerca, ma è anche un preludio a nuove sfide e esplorazioni che si svolgeranno prossimamente. È un tentativo di aprire riflessioni e discussioni sul linguaggio, la tecnologia e le relazioni sociali nell’era digitale.
Il tuo è sicuramente un discorso molto ambizioso. Posto che è sempre bello lasciarsi stupire dalle reazioni inaspettate del pubblico, quali sono i processi che vorresti mettere in moto, idealmente, nella sua testa?
Questa mostra ha l’ambizione di coinvolgere la mente, le emozioni e il cuore degli spettatori. Il mio obiettivo principale è quello di stimolare una profonda riflessione sul linguaggio, sulla sua influenza nelle relazioni sociali e sull’impatto delle tecnologie digitali sulla nostra percezione del mondo. Vorrei che i visitatori si sentissero coinvolti emotivamente, che le opere suscitassero domande e discussioni sulle logiche di potere nella società digitale contemporanea, sulla manipolazione e sul significato della parola, e che queste riflessioni continuassero molto tempo dopo aver lasciato la galleria. Vorrei che gli spettatori sperimentassero una sorta di “sintesi” tra il concettuale e l’emozionale, che li portasse a interrogarsi sul modo in cui percepiamo e comunichiamo il significato delle parole.
…e tutto questo tenti di ottenerlo con moltissimi media diversi. Sicuramente sei un “eclettico” se si dovessero scorrere le “tecniche” delle tue opere. Come approcci questa parte del tuo lavoro considerato anche il disinteresse che storicamente gli artisti concettuali hanno nei riguardi dello specifico materiale?
In effetti, decidere di adottare una tecnica artistica specifica comporterebbe già un certo grado di interesse per il materiale stesso. Tuttavia, essere eclettici nella mia pratica mette in evidenza un’indifferenza verso una tecnica particolare e la consapevolezza che ciascuna di esse può essere sostituita da quella successiva, senza che questo comprometta il mio impianto concettuale. Essenzialmente, mi sento completamente libero di utilizzare indistintamente un avvitatore, un algoritmo, una matita o l’intelligenza artificiale per esprimere un’idea. Cerco di abbracciare la flessibilità e la versatilità nel modo in cui traduco i concetti in opere d’arte, permettendomi di scegliere il mezzo più adatto a una data espressione, senza limitarmi a restrizioni legate a tecniche specifiche. Questa libertà mi consente di esplorare il mondo dell’arte in modo aperto e senza confini, sempre alla ricerca di nuove modalità ibride per comunicare il mio pensiero e la mia visione del mondo.
Quando si parla con te ogni tanti sembra di parlare proprio con un sistema AI! Il tuo interesse per l’intelligenza artificiale non è infatti della prima ora, avendo sempre cercato di mescolare il tuo io con vari espedienti, più o meno tecnologici, più o meno sofisticati, in grado di mettere in crisi una presunta soggettività o un controllo eccessivo per i dettagli della produzione artistica. In cosa può essere interessante o innovativa l’intelligenza artificiale in un momento in cui sembra essere molto alla moda nell’arte contemporanea?
In effetti, fin dall’inizio, ho esplorato questa dimensione di fusione tra la coscienza umana e l’ambito digitale. Già nel 2005, in una mostra intitolata Elaboro quindi esisto, ho creato un’opera cinetica che permetteva alle persone di interagire con un programma da me scritto, chiamato Omaggio a Turing (in riferimento al test di Turing utilizzato per determinare se una macchina è in grado di esibire una forma di pensiero), che generava frasi casuali. Questo tema è rimasto centrale anche nella mia mostra del 2022, Ex Machina, dove ho esplorato la transizione tra macchina e uomo attraverso il medium del disegno automatico.
Da un punto di vista personale, mi piace spingere i limiti imposti dagli sviluppatori alle intelligenze artificiali. Ad esempio, ho esplorato i confini etici delle chatbot come GPT ottenendo risultati inaspettati. Credo che utilizzare l’intelligenza artificiale per scrivere libri o creare immagini convenzionali, anche se seducenti, non porti molta innovazione, se non una maggiore facilità e semplicità nell’esecuzione. Tuttavia, cercare l’imprevisto tra i meandri dei dati digitali mi sembra un approccio più proficuo. Dal punto di vista pratico, le intelligenze artificiali offrono notevoli vantaggi in termini di risparmio di tempo. Possono essere utili per correggere testi, adattare le risposte a determinati registri linguistici o persino generare titoli quando si è a corto di idee.
In fondo è uno strumento molto simile a quello che criticavano i luddisti nella loro rage against the machine: nuove macchine che sostituiscono attività precedentemente considerate fondamentali dell’attività umana e che possono essere percepite come conflittuali per un “naturale” percorso di vita esistenziale e lavorativa. Nei lavori più recenti ti riconnetti non a caso alle basi della critica comunista, a Marx e alla riflessione su merce, capitale, plusvalore e controllo. Un interesse politico-sociale del tuo lavoro linguistico o – come mi aspetto – è tutto interconnesso?
Das Kapital di Marx è un’opera che ha cercato di analizzare la società industriale del suo tempo, esaminandola sia da una prospettiva economica che filosofica. Nella mia ricerca più recente, ho utilizzato mezzi informatici per analizzare questo testo e ottenere dati interessanti. Ho scoperto che la parola “lavoro” appare 3257 volte, seguita da “valore” con 1947 occorrenze, “produzione” con 1220 e “capitale” con 1194. Curiosamente, alle posizioni nove e dieci troviamo rispettivamente “merce” con 756 occorrenze e “merci” con 760.
Come esperimento ho sostituito la parola “merce” con il termine “informazione”. Sorprendentemente, l’impianto concettuale del testo rimane valido, ma diventa contemporaneo, trasformandosi da un’analisi della società industriale a una società digitale. In questa nuova prospettiva, le “merci” diventano “informazioni” e, rileggendo il testo, si comprende che chi controlla i mezzi di produzione delle informazioni, come algoritmi, intelligenza artificiale e big data, detiene il potere. Tuttavia, va sottolineato che questa ricerca non rappresenta uno studio di stampo marxista, quanto, piuttosto, una manipolazione di un testo classico per applicarlo a nuovi scenari dominati dalle vecchie logiche.
Se dovessi sacrificare tutta la tua ricerca per mantenere un unico nocciolo fondamentale in grado di rappresentarla integralmente in cosa consisterebbe?
Il nocciolo fondamentale della mia ricerca artistica risiede nell’esplorazione approfondita del linguaggio e nella sua relazione con le dinamiche sociali, filosofiche e tecnologiche contemporanee. Questo nucleo rappresenta la capacità di esprimere concetti complessi attraverso vari medium artistici e di riflettere sulle implicazioni del linguaggio nella società.
Gli algoritmi della sperimentazione
DOMANDE INTERVISTA
Angelo Demitri Morandini
Dialogando con Angelo Demitri Morandini scopriamo quanto il lavoro dell’artista possa essere complesso, ragionato, differenziato e come non ci sia limite ai mezzi quando la ricerca si fa espressione.
Una personalità decisamente poliedrica quella di Angelo Demitri Morandini (1975). Filosofo, informatico, ricercatore, è un artista concettuale multidisciplinare concentrato sul linguaggio e la manipolazione e l’impatto che questi elementi provocano nelle relazioni sociali che si impegna a “mappare”, ricorrendo a codici comunicativi innovativi, come geografie invisibili tra anime dialoganti desiderose di partecipare attivamente al processo creativo. “Angelo Demitri Morandini – Tele sociali”, progetto a cura di Gabriele Lorenzoni realizzato al Museo dell’Alto Garda – MAG in collaborazione con il Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto nel 2022, ne è l’esempio concreto.
Lo stesso tracciare artistico ha portato Morandini a viaggiare fisicamente e metaforicamente tra Skopje, in occasione della OSTEN Biennal of drawing del 2022, Beijing, per il Festival Art Nova 100 che vede esposto il video premiato alla 16° edizione dell’Arte Laguna Prize di Venezia, e l’Italia, disegnando un percorso ricco e fluttuante, proprio come il suo Dante, fulcro della personale allestita tra gli spazi della Galleria Contempo di Pergine Valsugana che rappresenta l’artista dal 2019.
Angelo, la tua formazione si presenta come una costellazione di discipline apparentemente distanti – dalla filosofia all’informatica e le nuove tecnologie –, in che modo traduci questa pluralità di voci in identità artistica?
Fondamentalmente, mantenere la pluralità di voci e interessi può rappresentare una sfida. Per farlo credo sia necessario esplorare costantemente nuovi campi e discipline, cercando di trovare prospettive e connessioni inedite tra diverse aree, che aprano a soluzioni creative originali. Questo richiede di essere aperti all’esperimento e alla sperimentazione di stili e tecniche differenti, mantenendo al contempo una propria visione artistica distintiva, per sviluppare una coerenza e un’autenticità ancora maggiori nell’espressione individuale.
Osservando la tua vasta produzione emergono chiari riferimenti all’Arte Concettuale, a quella Cinetica e persino ai gruppi di artisti che, nel tempo, hanno indagato la parola non solo in quanto messaggio ma anche, citando McLuhan, come medium. Ce ne puoi parlare?
Ugualmente, l’Arte Concettuale, l’Arte Cinetica e l’arte basata sulla parola sono espressioni artistiche che hanno avuto un impatto significativo sulla storia dell’arte e che continuano ad influenzare molti artisti contemporanei. La prima si concentra sull’importanza dell’idea o del concetto dell’opera d’arte, rispetto alla sua realizzazione fisica. La seconda, fortemente influenzata dalla scienza e dalla tecnologia, si basa sull’uso del movimento e dell’illusione ottica per creare opere che sembrano muoversi o cambiare forma. Infine, l’ultima si fonda sull’uso della parola scritta o parlata.
Ciascuna di queste a suo modo mi affascina e ha in comune un interesse per l’idea intesa come nucleo artistico e l’uso di media non tradizionali per comunicarla. Gli artisti che attingono da queste fonti possono combinare diverse tecniche e approcci dando vita ad opere che sperimentano con l’idea, il movimento e la parola come medium artistici.
Focalizzando l’attenzione sull’aspetto cinetico del tuo lavoro, le macchine che realizzi hanno un fine generativo. Dove si inserisce la figura dell’artista creatore in questo processo e quanto invece quest’ultimo viene influenzato dal caso, sempre che di aleatorietà si possa parlare.
Creo opere cinetiche che si muovono attraverso l’interazione tra meccanica, luce e suono. Utilizzo le macchine come strumento creativo, progettando e costruendo i meccanismi che le animano e scegliendone l’aspetto estetico e le caratteristiche. Tuttavia, il loro movimento dipende anche dalle condizioni esterne e dall’impatto con l’ambiente circostante, ciò significa che il risultato finale può essere casuale. Esempio di come il processo creativo tra controllo e aleatorietà possa portare a risultati inattesi un video diventato virale su Instagram di una mia macchina cinetica, che ha generato un acceso dibattito di oltre 900 commenti incentrati sul concetto di arte e su cosa essa sia. Il filmato in questione era stato ripreso durante la mia mostra/ricerca EX MACHINA presso la Galleria Contempo nel 2022, curata da Gabriele Salvaterra.
Si è fatto cenno al linguaggio che tu esplori nelle sue manifestazioni più svariate: dai materiali propri della scrittura – quali penne e inchiostri che simulano in tutto e per tutto sia il processo mentale che l’atto fisico – alla forma più impalpabile del dialogo. Che valore ha per te la parola?
Kafka ha detto che “un libro deve essere l’ascia per il mare congelato dentro di noi”. Questa citazione suggerisce che la parola ha il potere di scatenare emozioni e di cambiare il modo in cui vediamo il mondo. Nella mia pratica artistica dedico particolare attenzione alla parola e al suo potenziale come mezzo espressivo, esplorandola in tutte le sue forme, manipolandola e cercando di connetterla ad altri concetti come la relazione sociale e la percezione individuale. Attraverso l’uso della parola come materia artistica, cerco di sfidare le convenzioni e di trovare nuove modalità di espressione, spingendomi oltre i limiti dell’arte tradizionale. La parola è uno strumento potentissimo e il mio obiettivo è quello di utilizzarla in modo innovativo per creare opere d’arte che invitino alla riflessione e all’esplorazione del mondo intorno a noi. Sperimentare con la parola come materia artistica mi consente di esplorare una vasta gamma di mezzi e tecniche che portano a risultati sorprendenti. Inoltre, l’uso della parola nell’arte che pratico mi offre l’opportunità di affrontare tematiche complesse come l’identità, la politica e la cultura, attraverso una narrazione sottile e complessa. Mi piace utilizzare la parola come strumento per indagare l’esperienza umana e creare opere d’arte che invitano alla riflessione e alla contemplazione, creando un dialogo.
Tra le varie traiettorie che compongono le tue mappature artistiche ne emerge una in particolare che vede protagonista il fruitore. Si entra, dunque, nel territorio della relazionalità in cui l’individuo contribuisce alla creazione. Quale sfumatura assume nel tuo caso questo concetto?
Tra i concetti fondamentali della mia pratica artistica, la “relazionalità” è un aspetto che tengo spesso presente. Per me, l’arte non è solo l’opera d’arte in sé, ma un’esperienza condivisa tra questa, l’artista e il fruitore. Credo che l’opera d’arte sia il punto di incontro tra i tre elementi elencati, dove lo spettatore diventa un partecipante attivo nel processo creativo. Nella mia arte relazionale, l’opera d’arte non esiste senza la partecipazione di quest’ultimo. Le mie macchine cinetiche sono progettate per interagire con l’ambiente circostante, e la loro attivazione può dipendere dalle azioni dei visitatori. In questo modo, il fruitore diventa un co-creatore dell’opera d’arte e contribuisce alla sua evoluzione.
Molti tuoi lavori hanno come protagonista il disegno, forma di espressione primitiva, come risultato di un processo meccanico, ciò che definisci “disegno automatico”. Qual è la chiave per conciliare la regressione, in termini temporali, ad una forma di comunicazione primigenia con l’evoluzione verso una nuova dimensione esplorativa?
Ho sempre trovato il “disegno automatico” un approccio affascinante per esplorare la dimensione spontanea del disegno e della comunicazione visiva, e per aprire nuovi percorsi espressivi. Questo operare rappresenta una sfida creativa interessante perché non richiede il controllo totale dell’artista sulla forma finale, ma permette un processo di creazione più fluido e aperto alle sperimentazioni. Per me il “disegno automatico” rappresenta un’apertura verso nuove possibilità espressive, che possono integrarsi con altre forme di comunicazione e tecnologia. Inoltre, può avere un forte impatto emotivo ed estetico sullo spettatore, stimolandone la fantasia e l’immaginazione e aprendo la strada ad una nuova forma di relazione tra l’arte e il pubblico.
Restando in tema disegno non si può non fare cenno alle “tele sociali”, divenute oggetto del primo volume dedicato alla “Didattica d’artista” curato da Annalisa Casagranda e Ornella Dossi e pubblicato dal Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Come si è articolato il tutto?
Eccoci qui a parlare del primo volume di “Didattica d’artista” del Mart, il quale si focalizza sulla mia ricerca artistica attraverso le “Tele sociali”. Questo progetto è stato ospitato nel 2013 come un workshop presso il Mart a Rovereto, consiste nella creazione di una mappa delle relazioni tra le persone attraverso l’arte relazionale su superfici variabili come fogli di carta, tele o muri. Il libro documenta la mia ricerca di dieci anni e il processo di realizzazione delle “Tele sociali” al Mart, offrendo una panoramica dei caratteri formali della mia pratica artistica con il testo critico di Gabriele Lorenzoni.
Spesso parli di esplorazione delle possibilità e la mostra Dante Fluttuante realizzata nel 2021 alla Galleria Contempo in tal senso è stata emblematica. Tuttavia, se le possibilità proposte dagli algoritmi ai quali ti appoggi sono infinite, come capisci quando è giusto mettere un punto (o una virgola di respiro) al tuo lavoro?
Avere a disposizione algoritmi che offrono soluzioni potenzialmente infinite è un tema universale che pone l’uomo non al centro dell’universo, come vorrebbe, bensì collocato come elemento parte di un tutto, un tutto infinito. Nella mia pratica artistica cerco di applicare lo stesso paradigma concettuale. Il mio corpo di lavori è fatto da tanti pezzi collegati tra loro attraverso linee di forza, pertanto non sento il bisogno di ricorrere necessariamente a segni di interpunzione. Ogni opera appartiene al processo creativo universale e la separazione non è altro che un’illusione necessaria per contingenze legate all’esistenza materiale, come ad esempio un’esposizione.
Ci sono dei progetti che hai in mente di realizzare in un futuro più o meno prossimo? Stai cercando o saresti curioso di percorrere territori inesplorati sino ad ora
Indubbiamente sì. L’intelligenza artificiale sta diventando sempre più presente nella creazione artistica e nell’esperienza dell’arte, e c’è tanto da esplorare, criticare e scoprire in questo campo.
https://chiasmo.xyz/2022/10/24/larte-come-spazio-concettuale-intervista-ad-angelo-demitri-morandini/
L’arte come spazio concettuale.
Intervista di Greta Cavalli ad Angelo Demitri Morandini.
L’artista concettuale illustra ai lettori di «Chiasmo» la sua prolifica pratica artistica in un excursus fra ricchezza tecnica, ricerche sociologiche, filosofia e tecnologie contemporanee.
Angelo Demitri Morandini è un artista e ricercatore residente a Caldonazzo, in provincia di Trento. La sua formazione accademica abbraccia gli ambiti della filosofia, disciplina in cui si è laureato, e dell’informatica. Morandini ha deciso di intraprendere una carriera nel mondo artistico, al fine di dedicarsi ad un’arte concettuale di stampo multidisciplinare. Nella sua pratica conduce ricerche sulle tematiche del linguaggio, sulla manipolazione come oggetto concettuale, sulle relazioni sociali mediante le “tele sociali”, sulle tecnologie dell’informazione e sui social media, il tutto filtrato dalle sue conoscenze in campo filosofico e scientifico. Per esplorare questi contenuti l’artista si serve di una pluralità di mezzi: arti digitali, video, performance, disegni automatici, dipinti e installazioni cinetiche, sonore e/o luminose.
Le opere di Morandini sono state presentate in Italia e all’estero e si trovano sia in collezioni pubbliche sia private; tra le mostre e i festival in cui sono state esposte vi sono: Biennale di disegno Osten, Galleria nazionale di Skopje, Macedonia (2022); “Dante fluttuante”, premio videoarte, sedicesima edizione dell’Arte Laguna Prize (2022), esposizione all’Arsenale di Venezia e a Pechino, Cina; “Tele sociali”, BACS di Leffe, Bergamo (2022); “Shared oxygen starting …. s.o.s”, The Social Art award, Institute of art and innovation, Berlino (2021); “Dante fluttuante”, personale a cura di Dora Bulart, Galleria Contempo (Pergine Valsugana, TN), in collaborazione con la Fondazione Museo Storico del Trentino (2021); “Il Germogliatore”, a cura del Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (MART), Festival Poplar, Trento, (2018); “I TRY TO DRAW A FLIGHT”, a cura di Federico Mazzonelli, Museo dell’Alto Garda (MAG) a Riva del Garda, Trento (2015); “Dialogo sull’identità”, Università delle Arti di Bahia, Brasile; “Matrici affini”, MANIFESTA 7, Galleria Civica di Trento (2008). Dall’8 ottobre all’8 novembre 2022 presso la Galleria Contempo (Pergine Valsugana, TN) sarà visitabile “Ex Machina”, esposizione contenente oggetti cinetici e “disegni automatici” curata da Gabriele Salvaterra.
ANGELO DEMITRI MORANDINI: Sono Angelo Demitri Morandini e la mia ricerca si basa sul linguaggio, sulla manipolazione e sul loro impatto nelle relazioni sociali.
GC – Il tuo corpus artistico è ricco dal punto di vista tecnico, si evince che per te l’elemento sperimentale sia importante. Quali sono le ragioni sottostanti al tuo utilizzo di media differenti? Vorresti provare altri mezzi in futuro?
ADM: Per rispondere a questa domanda mi viene naturale citare il saggio Psiche e téchne. L’uomo nell’età tecnica di Umberto Galimberti, filosofo e allievo di Emanuele Severino. Rilevante è un passaggio ripreso da Heidegger che recita:
La téchne è un modo dell’altheyein. Essa svela ciò che non si produce da sé, ciò che ancora non sta davanti a noi, e perciò può apparire e ri-uscire ora in un modo o nell’altro. […] L’elemento decisivo della téchne non sta quindi nel fare o nel manipolare, né nell’utilizzare dei mezzi, ma nello svelare. La téchne è produzione in quanto svelamento, non in quanto fabbricazione.
Per quanto riguarda i mezzi che vorrei sperimentare, desidero riprendere il mio lavoro sull’intelligenza artificiale, sempre riguardante il tema del linguaggio e della manipolazione. Ho cominciato questa ricerca nel 2005 con l’opera La stanza cinese, riproponendo l’omonimo esperimento del filosofo americano John Searle, utilizzato per stabilire se le macchine fossero realmente dotate di intelligenza. L’esperimento consiste nel calare l’essere umano in una sorta di test di Turing. Sono molto interessato all’interazione dell’uomo con gli algoritmi generati dall’intelligenza artificiale; la mia indagine si focalizza sul processo, anziché sul risultato.
GC – Indipendentemente dal medium, nelle tue opere vi è un focus sul linguaggio a livello contenutistico. Quali aspetti di questo argomento suscitano in te fascinazione? Quali artisti ti hanno ispirato in tal senso?
ADM: L’aspetto del linguaggio che mi interessa è la sua universalità e la possibilità di scomporlo e ricomporlo. Il linguaggio è, come dice John Searle in Coscienza, Linguaggio, Società, «l’istituzione sociale di base: crea tutte le altre, anche se non è a sua volta creato dallo stesso meccanismo». Searle ha presentato una sorta di formula: X conta come Y in un contesto C, ossia una cosa diventa un’altra in un determinato contesto. Ad esempio, un pezzo di carta colorato conta come valuta legale in un Paese europeo. Il linguaggio possiede la capacità di incidere sul mondo tangibile, modificandolo. Ciò è possibile perché il linguaggio ha funzioni deontiche, legate al potere che la comunità dà alle istituzioni sociali. Il linguaggio manipola la realtà attraverso azioni e parole, non a caso nei regimi totalitari viene utilizzato a fini propagandistici come strumento per manovrare ed influenzare la società. Il linguaggio, a mio parere, non è mai neutro. Si veda 1984 di Orwell, in cui vi sono degli organi statali preposti alla creazione della Neolingua. La nuova lingua mira ad impoverire il linguaggio corrente per evitare che le persone si esprimano come vorrebbero e, di conseguenza, manifestino dissenso. Dunque, per quanto concerne la tematica del linguaggio mi hanno ispirato John Searle, George Orwell, il filosofo e linguista Noam Chomsky e l’artista concettuale Joseph Kosuth. Di quest’ultimo apprezzo il trattamento del linguaggio come connessione fra concetti diversi. La lingua non si esaurisce con la sola parola, ma riguarda anche un contesto, un dialogo con oggetti e concetti; così come l’opera d’arte non è mai fine a sé stessa, ma instaura sempre una relazione dialettica con molteplici aspetti.
GC – Il tuo operato si immerge in uno spazio concettuale, in particolar modo per quanto concerne tematiche di tipo sociologico. Qual è l’idea alla base delle tue “tele sociali”? Quali sviluppi hanno avuto queste mappature nel corso della tua carriera?
ADM: L’idea alla base delle “tele sociali” è di creare uno spazio condiviso in cui le persone invitate a collaborare a quest’opera d’arte partecipativa possano contribuire alla stesura di una mappa, la quale rivela le interazioni tra i soggetti che hanno preso parte a questa iniziativa. Mediante la delineazione di elementi triangolari si creano dei pattern che sono il cuore di queste opere. Negli anni ho coinvolto gruppi di persone selezionate attraverso diversi criteri sociologici, inoltre ho sperimentato questa pratica all’interno di spazi differenti. Contesti molto ristretti, come un camper dalla capienza limitata, hanno permesso di creare mappature senza che i partecipanti vedessero l’opera nel suo complesso, disponendo di una visione parziale. Vorrei a tal proposito menzionare Angela Vettese: nel suo saggio Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea, edito da Laterza, afferma:
Avvertiamo che il nostro sapere, per quanto più solido e comprovato di quanto lo sia mai stato, è legato a teorie parziali; predomina la sensazione di vivere fra frammenti, con poche cose conosciute e ancora molto da scoprire. […] È di questo che l’opera d’arte si fa interprete quando mette insieme pezzi di mondo, brandelli di novità e rifiuti portati a seconda vita, eterogeneità di razza, di storia, di provenienza geografica, di credo religioso, di tradizioni e convinzioni, che si ritrovano in un gioco combinatorio. I nuovi metodi dell’arte visiva accolgono ed esibiscono la distanza tra ciò che siamo stati per millenni e ciò che stiamo diventando.
Il luogo fa la differenza: il risultato delle “tele sociali” dipende anche dal contesto, sia quello formale di un museo o quello intimo di una casa. Durante il primo lockdown ho avuto occasione di ripensare il modus operandi delle “tele sociali” attraverso la creazione di una piattaforma web. Dopo aver mostrato online il procedimento per la creazione del pattern, svariate persone provenienti da molte parti del globo hanno disegnato i triangoli su un foglio A4 e mi hanno inviato le scannerizzazioni via mail. Io mi sono occupato di ricalcarli con la carta carbone nel mio studio per creare una “tela sociale” diversa dal solito, da me vista come un modo per recuperare la socialità in un momento critico. Nel corso della mia carriera le “tele sociali” hanno indagato sia lo spazio, mediante i luoghi diversi, sia il tempo, attraverso la produzione svolta in modo asincrono. Questa pratica è stata trattata nel primo volume della collana Didattica d’artista, edito dal Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (Mart) e menzionato su «Artribune». Questa iniziativa, ideata e promossa dal Mart, è dedicata agli artisti che collaborano col dipartimento educativo del museo. Il libro Angelo Demitri Morandini. Didattica d’artista 01, uscito quest’anno, contiene un testo critico di Gabriele Lorenzoni, curatore e responsabile dell’Archivio degli artisti contemporanei trentini (ADAC).
GC – Nella mostra “Dante Fluttuante” (Galleria Contempo, 2021) hai proposto una decodificazione e riordinazione dei big data estrapolati dal celebre poema dantesco digitalizzato. Cosa ti ha spinto ad indagare la Divina Commedia mediante l’uso di tecnologie avanzate?
ADM: I big data e la Social Network Analysis (SNA) sono strumenti attuali, utili per capire il nostro mondo. I megadati sono l’enorme raccolta d’informazioni digitali su un dato argomento, in questo caso la quantità può generare qualità. Accanto alla lettura dei dati si colloca la Data and Information Visualization, fondamentale perché dà un aspetto visivo ad essi, si considerino le infografiche. Per quanto concerne il progetto su Dante, sono partito dall’idea che la conoscenza sia un bene universale e debba essere accessibile a tutti. Ho attuato un passaggio dalla scrittura alla visualizzazione: la Divina Commedia non è più “leggibile”, bensì visualizzata attraverso la forma del calligramma. Questo modulo poetico di origine antica, risalente al 300 a.C circa, mette in rapporto testo e contenuto. Dopo aver dissezionato l’opera letteraria, grazie alle tecnologie di SNA l’ho ricomposta e ho creato un organismo vivo, in movimento, ispirandomi alla poesia concreta e verbo-visuale. Le parole collegate le une alle altre si combinano e ricombinano creando composizioni sempre differenti, ciò conduce ad un’importante riflessione: la forma è uno dei modi in cui leggiamo il contenuto. Il linguaggio delle opere, così come della Divina Commedia, è interpretato in modo sempre diverso a seconda dell’epoca in cui ci si trova. Nel progetto “Dante Fluttuante” i personaggi, i paradisi e gli inferni sono in continuo rimescolamento.
GC – Attraverso la tua recente personale “Ex Machina” (Galleria Contempo, 2022) il pubblico avrà modo di osservare le “macchine cinetiche” di tua creazione che generano dei disegni quasi classici. Su quale concetto si basa questa intuizione?
ADM: La mostra tratta il disegno manipolato attraverso la tecnologia. Sono esposte delle macchine cinetiche, a cui ho dato un personale imprinting utilizzando, per citare Gabriele Salvaterra, «una creatività da favelas». Vorrei riportare un passaggio scritto dal curatore nel testo critico del catalogo che accompagna la mostra:
A tal proposito, c’è tutta una tradizione novecentesca di autori che hanno fatto leva sulla creazione automatica e aleatoria di dispositivi di senso per criticare dall’interno una modalità̀ ortodossa di produzione e, con essa, un’intera cultura. Si pensi anche solo al Surrealismo di Max Ernst e del cadavre esquis, alle sgocciolature di Jackson Pollock o Morris Louis, le Méta-Matic degli anni Cinquanta di Jean Tinguely. Anche Andy Warhol in una celebre dichiarazione afferma, similmente a Morandini, la sua aspirazione a diventare atarassico e imperturbabile quanto una macchina, cosa che lo porta a creare opere effettivamente molto controllate, riproducibili e anonime come cartelloni pubblicitari. Nel caso presente, invece, se si è fortunati, si può̀ assistere alla realizzazione in tempo reale di lavori quasi espressionisti, segnici e gestuali che portano alla luce geroglifici di società̀ scomparse o ancora da nascere.
Questi dispositivi di mia creazione realizzano autonomamente dei disegni o delle architetture, mentre, in altre occasioni, sono io stesso ad usare un avvitatore o una levigatrice a cui sono applicate delle grafiti per produrre disegni. Da questi movimenti involontari nascono dei disegni nei quali gli spettatori possono vedere ciò che vogliono, in un processo che rimanda alla pareidolia, il fenomeno illusorio subcosciente che ci porta a ricondurre oggetti, profili o tracciati dalla forma casuale a forme note. Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica paragona l’opera d’arte ad un formaggio coi buchi, dove gli spazi vuoti sono preposti agli osservatori, i quali la completano col loro apporto personale. Io preferisco fare un’analogia fra l’opera e un diamante: l’artista fornisce solo una faccia e le altre sono create dagli spettatori, più sfaccettature possiede e più è preziosa. La cosa più importante di “Ex Machina”, però, sono i quesiti che suscita: qual è l’opera? Le macchine, il disegno o la performance? E, soprattutto, cos’è il disegno? Come ho detto in precedenza, la tecnica svela. L’esposizione, dunque, ci parla del mistero del disegno e di una promessa di libertà, è un invito a mettere in discussione i nostri preconcetti.
Angelo Demitri Morandini
Ho visto cose che voi umani…
Reduce dalla recente collaborazione per la mostra personale Ex Machina presso la galleria Contempo di Pergine Valsugana (TN) di Dora Bulart, posso dire aver sperimentato solo un piccolo assaggio del lavoro, dello spettro di interessi e possibilità che può avere l’arte di Angelo Demitri Morandini. In quest’occasione, nella quale ho accompagnato curatorialmente e criticamente gli sviluppi della sua ricerca, il tema (se così si può definire) ha avuto a che fare con forme di automatismo, con la realizzazione di macchine “assurde” a cui delegare il processo di realizzazione pittorica e disegnativa. Un’idea sicuramente “pazza” e una mostra che è risultata molto stimolante e non canonica sia nei percorsi che ha messo in atto, sia nelle modalità allestitive che ha richiesto. Non era certo possibile, infatti, in questo caso, affrontare il progetto espositivo come si trattasse di semplici quadri in una esposizione, al contrario, la ricerca dell’autore in qualche maniera richiedeva la ricostruzione di un ambiente laboratoriale e la messa in scena della realizzazione, della catena di montaggio, che aveva permesso di produrre quel materiale grafico così numeroso e difficilmente arginabile da imporre un’attenta selezione per poter dare mostra di sé sulle pareti della galleria.
Quindi al centro – come un cervello da cui si dipartono stimoli centrifughi – si pone un white cube in procinto di essere sporcato. Al suo interno è tutto un muoversi di oggetti, un azionarsi di batterie, un reiterarsi di singoli spostamenti. I rotoli di carta scorrono veloci, le macchine con gestualità ossessive-compulsive danno luogo a segni che potrebbero anche essere di una Carla Accardi, di un Georges Mathieu o di un Antonio Sanfilippo. Ma Morandini non si lascia intimidire e, dopo aver realizzato quelle macchine ora intente a fare le sue veci, ci si mette a fianco per collaborare in prima persona alla realizzazione delle opere. Ciò non avviene mai direttamente, ma sempre ponendo un filtro tecnico incontrollabile tra la propria mano e il supporto, una forma sempre differente di “altra intelligenza” in grado di inserire elementi inaspettati, sorprendenti e casuali al processo operativo.
Si è detto poi Opere. Ma dove si situa questo concetto in una pratica così specifica? Inutile dire che un aspetto interessante dell’operazione risiede proprio nello spostamento rispetto all’idea di oggetto finito della produzione contemporanea che questo progetto ha reso possibile. Angelo Demitri Morandini ha realizzato disegni coadiuvato dalle macchine, li ha fatti personalmente, ha creato sculture cinetiche, ha dato vita a performance estemporanee meccanico-umane, ha realizzato video di tutto ciò, ha dato il materiale così ottenuto in pasto ai social network. In questo, la realizzazione su carta ha rappresentato una sorta di fotografia, una documentazione che, come avveniva per gli artisti della body art o dell’arte concettuale dei più oltranzisti anni Settanta, è il corrispettivo di qualcosa ormai concluso che si può ricostruire solo a partire dalle proprie tracce lasciate ai posteri. Una natura “indicale” dell’opera che consente al flusso creativo di svilupparsi secondo adattamenti, espressioni e direttrici sempre diverse.
Già questo approccio mette in luce il carattere difficilmente etichettabile della pratica di Angelo Demitri Morandini. L’oggetto, l’azione, la registrazione, la traccia non sono che strumenti atti a mettere alla prova i linguaggi, verificarne le relazioni, auscultare i rapporti di causa-effetto e di reciproco condizionamento che interessano, come in una rete, i soggetti di volta in volta posti in gioco. L’autore rende tutto apparentemente semplice e comunicabile dicendo che il suo lavoro ha a che fare con i nodi di linguaggio, interazione e manipolazione, ma a ben guardare il dispositivo è ben più complesso se si ragione su come, attorno a questi tre concetti, si agglomeri gran parte dell’esperienza umana possibilmente conoscibile. Soltanto l’ambito del linguaggio basterebbe a esaurire un intero progetto di ricerca se è vero che è esso a permettere di costruire le categorie nelle quali ci muoviamo come esseri viventi e se è vero che, da un certo punto di vista, corrisponde precisamente con l’universo stesso che abitiamo, dato che quest’ultimo può venire percepito e descritto solo attraverso gli strumenti semantici in nostro possesso.
In tutto ciò un ingrediente fondamentale per Morandini è rappresentato dalla tecnologia, impiegata come reagente incontrollato alle operazioni e alle dinamiche relazionali che volta a volta mette in atto. Non dunque strumento-aiutante incaricato di fornire output precisi e perfettamente controllabili, al contrario scatola nera all’interno della quale accadono delle cose, conoscibile fino a un certo punto, utilizzabile in maniera maleducata secondo finalità inaspettate, medium guastatore rispetto agli intenti creativi e compositivi dell’artista tradizionale. Infatti, questa tecnologia, può assumere le forme di sofisticati software di analisi dati, oppure sembianze da bricolage provvisori, oppure, ancora, di vere e proprie tecniche tradizionali – pittura e disegno – approcciate in maniera totalmente anticonformista e non autoriale.
Sembrerebbe difficile in questo vortice di approcci e poetiche trovare una riconoscibilità, ridurre l’artista a una formula. Morandini fortunatamente non può essere descritto come “quello dei triangoli”, “quello dei software di analisi dati”, “quello delle matite appese”, “quello dei materiali d’ufficio”. È probabilmente tutte queste cose assieme e nessuna di esse. Egli è artista concettuale perché, proprio alla stessa maniera di coloro che negli anni della neoavanguardia venivano definiti “operatori artistici”, mette in atto processi tagliati su misura sulla finalità e il progetto che in quel momento sta approfondendo. Nonostante questo, il risultato non è mai controllato freddamente, piuttosto è seguito, osservato e registrato con occhio clinico e aperto al caso, allestendo una sorta di laboratorio sperimentale nel campo delle arti visive dove tutto, dall’oggetto prodotto alla reazione del pubblico, all’interazione dei social network, può essere oggetto di disamina.
Eppure nella produzione di Morandini è possibile anche trovare una riconoscibilità formale. Le migliaia di parole della Divina Commedia, la quantità di triangoli fatti realizzare ai partecipanti delle sue Tele sociali, i segni inconsulti ma poetici prodotti dalle sue macchine cinetiche, le accumulazioni di tappi, penne o graffette. Questi materiali, minimi e insignificanti se presi singolarmente, messi a sistema nella loro globalità danno vita a galassie polimorfiche di significato che fluttuano e si muovono in armonia, si trasformano, mettendo in luce dinamiche relazionali, rapporti di interazione, prevaricazione e sottomissione che ci raccontano qualcosa del nostro vivere sociale. Ecco, se si dovesse trovare una formula per sintetizzare la quantità di interessi e possibilità del lavoro di Morandini questa avrebbe a che fare con il rapporto tra uomo e macchina, tra individuo e oggetto inanimato (o animato artificialmente), in un guardarsi reciproco dove spesso ci si scambia le parti. L’essere umano risulta così “meccanico” nel ripetere propri automatismi e idiosincrasie, mentre la macchina manifesta inaspettati margini di imprevedibilità e creatività, mettendo in crisi i nostri assunti, spostandoci leggermente dai centri in cui ci sentiamo a nostro agio. Dante può diventare così un freddo elenco di dati elettronici, ma quest’ultimo può a sua volta dare vita a nebulose struggenti nelle quali perdersi con gli occhi nella contemplazione di mondi possibili del futuro. “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare…”. Nella finzione cinematografica di Blade Runner (1982) è un cyborg a pronunciare questo ammonimento, un robot che, con questo monologo, dimostra in effetti un’incredibile umanità.
Gabriele Salvaterra
Angelo Demitri Morandini. L’artista bricoleur intervista a cura di Chiara Canali.
- Il tuo primo contatto con l’arte?
Il mio primo contatto con l’arte è avvenuto nel 1995 quando ho iniziato ad avvicinarmi alla pittura tradizionale sotto la guida del maestro d’arte Sergio Debon. Questa esperienza ha segnato l’inizio del mio percorso artistico e mi ha introdotto al mondo dell’espressione artistica attraverso il colore e la pittura.
- Quando hai capito che l’arte sarebbe diventata da passione a professione?
Ho iniziato a considerare l’arte come una possibile professione quando, nel 2005, ho conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l’Università di Verona. In quel periodo, ho avuto l’opportunità di entrare in contatto con l’artista concettuale Diango Hernández, il che ha suscitato in me un crescente interesse per l’arte contemporanea e il suo potenziale come campo di esplorazione artistica. Questo incontro ha rappresentato un punto di svolta nella mia vita artistica, spingendomi a dedicare sempre più tempo ed energie allo sviluppo della mia carriera nell’arte. Da allora, ho continuato a coltivare la mia passione per l’arte, combinando il mio background filosofico e informatico con l’espressione artistica.
- La tua prima opera d’arte?
La mia prima opera d’arte contemporanea è stata un lavoro digitale che ho creato attraverso un linguaggio di programmazione nel 2005. L’opera, intitolata “la stanza cinese: omaggio a Turing,” era un’installazione interattiva che permetteva ai visitatori di generare frasi casuali selezionando delle immagini. una sorta di IA molto rudimentale ma poetica. Questo progetto segnò l’inizio del mio percorso nell’arte contemporanea, dove ho iniziato a esplorare l’interattività e il potenziale delle nuove tecnologie nel mio lavoro artistico.
- Per fare arte bisogna averla studiata?
Penso che frequentare l’Accademia delle Belle Arti sia sicuramente un percorso molto valido per chi desidera intraprendere la carriera di artista. Personalmente, ho una laurea magistrale in filosofia, il che mi ha permesso di sviluppare un approccio concettuale all’arte. Tuttavia, ho riconosciuto l’importanza di studiare in modo più approfondito la storia dell’arte e comprendere il sistema dell’arte. Pertanto, ho lavorato duramente per acquisire queste competenze, partecipando a residenze artistiche sia in Italia che all’estero. Inoltre, ho frequentato numerosi workshop e seminari che hanno arricchito la mia visione dell’arte e mi hanno aiutato a sviluppare ulteriormente le mie abilità creative. Quindi, anche se non ho seguito un percorso accademico tradizionale nelle belle arti, ho investito tempo ed energie per ampliare la mia conoscenza e competenza nel campo dell’arte contemporanea.
- Come scegli cosa rappresentare?
Nella mia pratica artistica, l’arte non necessariamente rappresenta qualcosa o qualcuno in modo diretto. Per me, l’arte ha una sua autonomia ontologica, il che significa che un’opera d’arte, come ad esempio un quadro astratto, è una realtà in sé, senza la necessità di rappresentare qualcosa al di fuori di sé stessa. Le mie opere sono quindi un’estensione del mio essere e della mia visione del mondo, un modo di esplorare e comunicare la complessità delle idee e delle emozioni, senza la necessità di una rappresentazione letterale.
- Un aneddoto che ricordi con il sorriso?
Durante una delle mie prime mostre, ho creato un’installazione intitolata “Le parole che non ti ho detto”, un lavoro site-specific di 500 matite colorate sospese in uno spazio di 200 metri quadri. Durante una visita guidata, il curatore ha condotto un gruppo di visitatori che sono rimasti profondamente colpiti dall’installazione, applaudendo spontaneamente. Successivamente, mentre ero da solo in macchina e ripensavo a quel momento, ho sperimentato un’onda di gioia così intensa da non poter trattenere le lacrime. Ricordo con dolcezza questo momento e sorrido ogni volta che ci penso.
- Se potessi incontrare un artista del passato, chi e cosa gli chiederesti?
Se avessi l’opportunità di incontrare un artista del passato, mi piacerebbe molto incontrare Picasso e chiedergli di condividere con me i suoi segreti sulla pittura. A Tiziano, chiederei di svelarmi i misteri del colore e delle sue tecniche. Nel caso di Kosuth, mi interesserebbe approfondire la sua comprensione del linguaggio nell’arte. E se si trattasse di Beuys, vorrei immergermi nelle sue “sculture sociali,” così come chiamava le sue lezioni. Credo che da ognuno di questi artisti potrei imparare qualcosa di straordinario e prezioso per la mia pratica artistica.
- Se incontrassi te stesso a 18 anni cosa ti consiglieresti?
Se dovessi incontrare il mio io diciottenne, mi consiglierei di considerare seriamente l’idea di frequentare l’Accademia d’arte, anche se può sembrare una scelta difficile e fuori dalla zona di comfort. Questo perché so che uscire dalla propria comfort zone è fondamentale per crescere artisticamente e personalmente. Inoltre, suggerirei di dedicare il tempo allo studio della filosofia per raggiungere la laurea, in quanto questa combinazione di conoscenza filosofica e pratica artistica sarà un mix vincente. È importante anche scegliere con cura le persone da cui imparare, cercare mentori e compagni di studio che possano ispirarti, ma non troppo. Infine, ricorderei al mio io diciottenne di essere paziente, poiché il percorso artistico richiede tempo e dedizione. Il lavoro d’artista è un lavoro di resistenza.
- Quanto conta la comunicazione?
La comunicazione riveste un ruolo di estrema importanza nell’arte, specialmente in un’epoca in cui siamo immersi nella società dell’immagine. Strumenti come le fotografie delle opere d’arte, i social media e la stampa specializzata sono tutti strumenti fondamentali che ogni artista deve conoscere e saper utilizzare per far conoscere il proprio lavoro al pubblico.
Tuttavia, è altrettanto cruciale non dimenticare i contenuti e la qualità delle opere stesse. A volte, si può cadere nella trappola di dedicare troppo tempo alla comunicazione e alla promozione, a scapito del tempo trascorso in studio a creare. È importante mantenere un equilibrio tra la comunicazione e la creazione artistica, in modo che il lavoro rimanga autentico e significativo. Quindi, mentre la comunicazione è essenziale, è altrettanto importante dedicare tempo e impegno allo sviluppo e alla perfezione dei propri lavori.
- Cos’è per te l’arte?
Per me, l’arte è un linguaggio profondo che va oltre le parole e permette di esprimere idee, emozioni e visioni del mondo. La mia pratica artistica, basata sul linguaggio e la manipolazione ed il loro impatto sulle relazioni sociali, esplora diverse forme e medium. L’arte è una ricerca di significato e una riflessione sulla nostra esistenza, un linguaggio che parla alla mente e all’anima.
- Cosa ti aspetti da un curatore?
Da un curatore mi aspetto che si immerga profondamente nel mondo di un artista con empatia e comprensione. Mi aspetto che utilizzi la sua conoscenza per posizionare la ricerca dell’artista nel contesto concettuale appropriato. Mi aspetto che abbia il coraggio di sfidare le convenzioni e di sostenere visioni artistiche audaci. Attraverso le sue parole e il suo pensiero, mi aspetto che il curatore contribuisca ad arricchire la cultura e la società, agendo come un architetto del pensiero, che dà forma e significato all’arte.
- Cosa chiedi ad un gallerista?
Da un gallerista chiedo chiarezza, onestà e lungimiranza. Qualità che ho trovato con le mie due gallerie di riferimento in Italia la galleria Contempo di Pergine e la Manuel Zoia Gallery di Milano.
- Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
I miei progetti futuri sono sempre in evoluzione, l’arte è una ricerca continua e in continua trasformazione. Al momento sto lavorando su nuove opere che esplorano ulteriormente il linguaggio e la sua interazione con le dinamiche sociali e digitali contemporanee. Sto anche esplorando nuovi medium e approcci artistici per ampliare la mia pratica. Sto lavorando per realizzare questi progetti con spazi espositivi e realtà museali in Italia e all’estero.
Angelo Demitri Morandini: tra linguaggio e relazioni sociali attraverso l’ascolto
Francesca Fattinger
L’immensità è in noi, è legata a una sorta di espansione dell’essere che la vita frena e la prudenza arresta, ma che riprende nella solitudine.
Gaston Bachelard, La Poetica dello Spazio
Mi piace iniziare questa intervista con l’artista trentino Angelo Demitri Morandini con questa citazione di Gaston Bachelard, epistemologo e filosofo francese della scienza e della poesia, perché è da questa conoscenza comune che abbiamo cominciato a dialogare e che sono entrata piano piano nel suo mondo. Sempre lui affermava nell’opera “Il diritto di sognare” che occuparsi dell’immaginazione vuol dire agire “al limite fra sogno e pensiero oggettivo, nella confusa regione dove il sogno si nutre di forme e colori reali, e dove, per converso, la realtà estetica trae la sua atmosfera onirica”. Queste parole mi fanno pensare alle opere di Angelo che, raccontandomi il suo lavoro a cavallo tra caos generativo e ordine catalogante, mi ha aperto il suo atelier facendomi strada nella sua storia.
Mi ha portato nei meandri dei suoi processi creativi, linguistici e filosofici, facendomi toccare con mano i suoi progetti che l’hanno condotto e lo conducono continuamente dall’arte concettuale a quella relazionale, dalla land art alla digital art, e viceversa, ma sempre attraverso la pratica dell’ascolto di sé, dell’ambiente e delle persone con cui collabora. Uno degli aspetti del suo lavoro che mi ha più affascinato è la sua attenzione al linguaggio. Negli anni, infatti, racconta “la mia ricerca artistica si è focalizzata sulla relazione tra il linguaggio e i suoi strumenti, alterandone gli equilibri e le funzioni per creare armonie o dissonanze concettuali, attraverso l’accumulo e l’ossessione, creando così una o più nuove realtà.”
La tua carriera è ricca, prolifica ed estremamente poliedrica. I tuoi progetti, pur nei diversi media in cui ti sei cimentato, dal disegno al video, dalla pittura all’installazione, dalla steganografia ai progetti relazionali, ruotano attorno a forti capi saldi, tra cui l’attenzione fondamentale al linguaggio. Il tuo è un linguaggio fatto di parole, segni, suoni, oggetti, persone, ambiente. Ce ne vuoi parlare un po’ di più?
Nella mia pratica artistica metto al centro il concetto, e i diversi media che posso utilizzare servono per amplificare l’idea, sono delle lenti attraverso cui osservare il concetto o l’indagine da angolature diverse.
Ti racconto di un lavoro di qualche anno fa che ben spiega questa cosa. Anagrammando il nome del quotidiano locale “Alto Adige” si ottiene la parola Dialogate. Un invito quindi a parlare e confrontarsi.
Dialogate è diventato il titolo di un quotidiano utopico attraverso l’utilizzo un oggetto poetico che ho inventato: il “preligrafo”. Il “preligrafo” è un assemblage tra una penna e una siringa. La siringa utilizzata sul quotidiano può prelevare l’inchiostro, quindi il testo e le parole. Ho realizzato dunque un giornale dalle pagine vuote e l’inchiostro è stato messo in una boccetta. Successivamente diverse copie di questo quotidiano vuoto, fatta eccezione per il titolo “dialogate quotidiano per liberi pensatori”, sono state consegnate a genitori e bambini nelle loro case. La boccetta con l’inchiostro è stata aperta e l’inchiostro, che altro non è che parole allo stato liquido, hanno cominciato ad evaporare. Il video documenta questo tipo di arte relazionale e racconta di genitori che inventano storie ai loro figli e che appunto dialogano in modo conviviale riappropriandosi di uno spazio relazionale occupato prima dai telegiornali. Il tema sono i media e il valore delle informazioni. Un’ indagine che ancora oggi porto avanti e che ho presentato nella mia ultima mostra personale del 2020 intitolata “crazy pink propaganda” presso la Galleria Contempo di Pergine.
Nell’installazione “gli 11 principi” che Goebbels non ha scritto, otto luci al neon trovano una collocazione diametralmente opposta al soffitto, dove siamo abituati a vederli e sono ubicati invece sul pavimento. La luce, fredda come la ragione analitica, trapassa i micro-fori del testo impresso sulla carta ciclostile che abbraccia il tubo luminoso. Questo tipo di carta, usata largamente ne XX secolo, permetteva la stampa manuale a basso costo per una tiratura limita. Utilizzata nelle occupazioni studentesche, nei movimenti di protesta nei pamphlet, (breve scritto di contenuto polemico o satirico) o nei “samizdat”, la carta ciclostile ha un valore culturale nostalgico poetico. Per scrivere il testo sulla carta ciclostile ho utilizzato una macchina da scrivere Olivetti dell’epoca. La dura meccanica della macchina, battendo sulla fragile carta ciclostile, leva la pellicola nera creando una matrice inalterabile non manipolabile. L’installazione è un grido d’allarme verso la manipolazione, infatti, cercando in internet gli 11 principi sembra che li abbia scritti Goebbels, ma è un’anomalia dell’algoritmo che anche se evoluto ancora non può essere un garante di verità, un problema che con l’avvento dei Big data dovrà essere affrontato.
Leggendo il tuo statement una delle parole che più mi sono rimbombate dentro, creando echi e rimandi, è stata: ASCOLTO. Scrivi: “per quanto riguarda l’arte relazionale mi sono dedicato alla costruzione di spazi di ascolto. Un ascolto dei suoni del mondo, un ascolto della natura, un ascolto dell’altro, un ascolto interiore.” Quale potenzialità racchiude l’ascolto per il tuo lavoro?
L’ascolto è attenzione. La prima attenzione per un artista è verso sé stesso. È importante un ascolto interiore lontano dai rumori del mondo. Il premio di questa pratica è l’autenticità. Poi c’è l’ascolto verso l’esterno dell’altro e del mondo. L’alambicco sonoro racconta questo tipo di ascolto: è un’istallazione di land art, che il comune di Ledro ha acquisito nel 2013. 4 pali di larice fungono da antenna del mondo attraverso i principi della radio galena, una radio di fortuna fatta con i cristalli di galena durante la guerra dai soldati per rimaner connessi con il mondo. La cosa particolare di questa radio è che è suscettibile al cambiamento atmosferico, è viva. Le persone sentono un fruscio e sono costretti ad avvicinare l’orecchio al palo per ascoltare meglio e sentire conversazioni in zone remote del mondo che l’aria ha portato fino a li. Questo è il punto. Il lavoro è semplicemente un invito a fermarsi e ascoltare.
Un altro aspetto importante delle tue opere è quello legato al corpo, alla corporeità degli oggetti che crei, smonti e riassembli e alla corporeità tua e delle persone che coinvolgi nei tuoi progetti. Ci puoi parlare, in particolare, dei grandi disegni con la graffite e di Fragile Babilonia?
Dal 2017 ho approfondito il tema del disegno automatico e ho utilizzato questa tecnica per indagare il tema del trauma e il suo mistero. Una sorta di rinascita, alla ricerca dello stato di trans, una ricognizione approfondita dei flashback. Uno scongelamento dei ricordi che la memoria congela in seguito ad un’esperienza traumatica. Ho utilizzato grossi pezzi di graffite su carte di grandi dimensioni. I segni sono forti e violenti e a volte la graffite si spezza. Si spezza come quando ti rompi un osso e lo fa all’improvviso bloccando il flusso del disegno. Ad ogni rottura qualcosa emerge come un momento catartico. I movimenti sono ossessivi impulsivi viscerali a volte delicati e impercettibili. Attraverso il di- segno posso prendere appunti in modo veloce e istintivo limitando le incursioni del cervello e le sue prigioni mentali. Il lavoro è una ricerca di libertà e una promessa di dialogo.
“Fragile Babilonia” invece ha avuto una Nomination in “Premio Combat Art Prize, nella sezione installazioni. Si tratta di un concorso internazionale che quest’anno ha visto la partecipazione di 1400 opere iscritte da 46 paesi diversi. “Fragile Babilonia” è un’installazione di misure variabili, formata da un accumulo di 4000 elementi metallici disposti in un reticolo di grafemi. Sono partito da una riflessione sul linguaggio e sulla natura ambigua delle parole, ne è emerso un “tappeto linguistico” frutto di automatismi meccanici e umani. Un riflesso della cultura mutevole e dinamica dell’era contemporanea che ci parla con il linguaggio della contraddizione. Le parole che “dicono” nascondono mentre quelle che nascondono sono proprio quelle che rivelano. Ogni elemento è stato generato da una graffettatrice che “sparava” le sue graffette su un sasso (guarda il video). Con il lento consumarsi della pietra ad ogni colpo mutava la superficie su cui impattava la graffetta, che in modo casuale ha assunto forme sempre diverse. Lo scopo della graffettatrice è ancorare una superficie ad un’altra ma il tentativo ossessivo di unire la cambretta con il sasso ha generato un fallimento, anzi 4000 fallimenti. L’impatto infatti deformava il metallo generando dei simboli unici che sono stati raccolti e disposti come nella pagina del quaderno di un bambino che sta imparando a scrivere. Ci tengo a dire che io non ho modellato nessuna graffetta e che la forma è semplicemente frutto del caso e dell’impatto. Queste forme sono come una scrittura antica, quasi sumera, e le lettere sono dei vagiti primordiali. In un mondo in cui siamo sommersi da informazioni e i mezzi di comunicazione proliferano, rischiamo di naufragare in una solitudine esistenziale, incapaci di comprenderci in una sorta di “Babilonia contemporanea”.
Sinestesia e immagini video, corporeo e digitale, reale e virtuale, casualità e controllo. Come hai fatto a unire questi opposti per creare arte ed esperienze? E poi sono davvero così opposti come crediamo?
Nel 2013 ho cominciato una ricerca che indagava il rapporto tra immagine e suono e che ancora oggi sto esplorando. Mi sono domandato se fosse possibile ascoltare le immagini anziché guardarle e basta, e creare quindi un lavoro sinestetico. Ispirandomi all’acqua ho immaginato di considerare l’elettricità come fosse un liquido e ho pensato che se avessi cambiato il contenitore avrei anche cambiato la forma del liquido stesso. Il cavo è il letto del fiume. L’acqua, cioè l’elettricità, va dal computer al monitor, come un piccolo fiumiciattolo. Ho creato una deviazione e ho diretto l’elettricità in un nuovo contenitore cioè in un box audio. L’elettricità ha preso la forma di quel contenitore ed è diventata inaspettatamente suono, forse più rumore, cioè suono disorganizzato.
Utilizzando questi principi ho realizzato nel 2015 Il progetto “I Try to draw a flight” che ha fatto parte del progetto “Der blitz”. Tale progetto nasce all’interno del MAG, Museo Alto Garda, come strumento per rappresentare le ricerche legate all’arte contemporanea e metterle a confronto con il territorio. E’ stato un progetto a cura di Denis Isaia, Federico Mazzonelli in collaborazione con MART, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Il lavoro era composto da un video che dialogava con una lastra vetro. Il segnale video è stato utilizzato sia per visualizzare l’immagine che per alimentare una sorta di box audio rudimentale il quale, vibrando sulla lastra di vetro, generava dei suoni. Chi assisteva vedeva quindi l’immagine, ma ne ascoltava anche i contenuti attraverso il suono.
Il volo in parapendio di quattro amici sul lago di Garda si intrecciava con un mio tentativo fallimentare di disegnare una rotta utopica sopra un elemento instabile: una pallina da ping pong sospesa in un flusso d’aria e segnata da un pennarello. Prospettive, paure, speranze e fallimenti sono le emozioni e gli elementi che caratterizzano I try to draw a flight.
Il prossimo anno un lavoro più complesso che esplora maggiormente la dimensione della parola e porta in grembo le ricerche iniziate nel 2013, sarà presentato presso La SLUB, Biblioteca universitaria del Land di Sassonia, (nome originale: Sächsische Landesbibliothek) di Dresda che è la biblioteca statale (Staatsbibliothek) della Sassonia nonché la biblioteca universitaria dell’Università Tecnica di Dresda.
Spesso elementi che sembrano distanti trovano una vicinanza quando proviamo a guardarli da una nuova prospettiva. L’arte lo insegna: la prospettiva è un principio cardine per lo spazio, e vale anche nella filosofia per le dimensioni del pensiero.
Angelo Demitri Morandini è nato a Trento, in Italia, nel 1975. È un artista concettuale multidisciplinare concentrato sul linguaggio e sulle relazioni sociali. Laurea in Filosofia, Università di Verona 2005; ottiene diverse certificazioni in Information Technology presso importanti aziende quali Microsoft, Oracle e Vmware. Le opere d’arte e i progetti concettuali di Morandini sono stati presentati in Italia e all’estero, di seguito le recenti mostre, festival e progetti selezionati: progetto Atlas Curae, a cura di Francesca Piersanti e Veronica Bellei (Palazzo ExPoste, Trento, Italia, 2020) ; “Crazy Pink Propaganda”, a cura di Dora Bulart, mostra personale presso Galleria Contempo (Pergine di Trento, Italia 2020); Fragile Babilonia, Combat Art Prize 2020 (nomitation; catalogue); “Robotic Man”, video installazione a Villa Brentano (Milano); Progetto personale “Il Germogliatore”, a cura di Annalisa Casagranda (MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto), Palazzo Albere; Trento, 2018); “I TRY TO DRAW A FLIGHT”, progetto di video installazione, a cura di Federico Mazzonelli (MAG – Museo dell’Alto Garda, Riva del Garda (Trento), 2015); “Dialogo d’identità” (dialogo sull’identità), progetto di una tela sociale presso l’Università delle Arti di Bahia, Brasile; progetto di video arte per MANIFESTA 7 (collateral; Trento, 2008) ecc. Dal 2019 Angelo Demitri Morandini è presentato dalla galleria Contempo (Pergine di Trento, Italia). Vive e lavora a Caldonazzo (Trento), Italia.
Dialogo – Federico Mazzonelli/Angelo Morandini
FM Perchè il volo?
AM Ad un certo punto della mia vita ho sentito l’esigenza di fare cose che non avevo mai fatto prima. Non so precisamente perché ma è cosi. Le prime tre cose della lista erano: lanciarmi con il bungee jumping, volare e sparare con una pistola. L’anno scorso mi hai proposto di fare un lavoro sul volo. Mi è sembrato strano, non lo avevo mai fatto. Ho sempre tenuto volo e arte distinte tra loro. Mi sono messo in gioco e ho appreso che attraverso il volo si possono indagare alcune problematiche classiche dell’arte, lo spazio, la percezione la prospettiva e altre proprie dell’arte contemporanea, l’ossessione, il limite, l’ansia il fallimento.
FM L’idea del volo in effetti è nata da un fattore contingente e in stretta relazione alla progettualità di Der Blitz 2015; il volo è divenuto quasi uno “strumento” per narrare il paesaggio, e ciò che mi interessava era capire se chiamando un artista, te nello specifico, il volo potesse tornare invece ad essere un elemento dello spazio che chiamiamo paesaggio, la cui natura è molteplice e mai univoca. Ricordo che stavi sperimentando la possibilità di far scorrere una serie di suoni lungo una lastra di vetro, sotto forma di onde magnetiche, di leggere vibrazioni, come se la lastra fosse un foglio di carta, bianco, attraversato dalle linee di un disegno. Il disegno mi ha sempre affascinato, per la sua autosufficienza d’idea che diventa forma, di segno che si accontenta della sua leggerezza, e che rinuncia ad ogni enfasi legata alla materia. E’ in quel momento che è iniziato il progetto dal quale poi è nato il lavoro che hai portato al museo. Me ne vuoi parlare?
AM Ricordo perfettamente quel momento, luce, estate, studio di Pergine, pavimento in legno, avevo imparato ad “ascoltare” le immagini e ti ho chiamato. Un lavoro sinestetico puro. C’era una videoproiezione The Bar: una barra grigia che si muoveva su uno sfondo verde, un movimento ritmico preciso e ipnotico. Un giorno ho provato ad attaccare il cavo video del monitor ad un box audio ed ho scoperto che era possibile ascoltare ciò’ che si vedeva a video. Da li’ è partita una ricerca ed ho appreso che le immagini digitali che vediamo a monitor sono composte da tre flussi di colori RedGreenBlue. Ogni flusso di colore è semplicemente energia e precisamente energia elettrica in movimento cioè variazione di corrente. Attaccando un flusso di colore, ad esempio il Red, ad un box audio è possibile ascoltare il colore di quell’immagine. Quando sei venuto tu stavamo ascoltando il colore rosso del video The Bar. Ho poi costruito un box audio rudimentale, una spirale di rame con all’interno un magnete, e l’ho poggiato su una lastra di vetro. In quel momento il flusso del colore rosso è diventato vibrazione della lastra che a sua volta ha generato vibrazioni sonore.
FM Il volo, il disegno, la lastra di vetro attraversata dalla vibrazione, sono tutti elementi che ritroviamo nell’installazione che hai realizzato per il Mag; che relazione si sviluppa tra di loro, dal piano fisico a quello simbolico, all’interno dei questo lavoro?
AM Tutta l’installazione di basa su un grosso e madornale errore tecnico: il cavo video è nel posto sbagliato; nel dettaglio: il lettore DVD ha due uscite video; una è stata usata per collegare lettore con videoproiettore , l’altra collega il lettore all’amplificatore audio questo è l’errore. Mentre vediamo un video di volo in parapendio e una mano che prova a disegnare un qualche cosa su una pallina da ping pong che galleggia in aria, ne possiamo anche ascoltare la trasposizione in forma sonora. immagini e onde sonore sono epifenomeni diversi di una stessa cosa: l’energia. La lastra di vetro è sempre al limite della rottura rischiando di frantumarsii in mille pezzi. Per usare una metafora è come prendere dell’acqua (la corrente) si può’ mettere in un bicchiere (monitor) o in una brocca (box audio) l’acqua prenderà la forma del proprio contenitore. Simbolicamente la video-installazione non ha alcun significato ma ti posso raccontare delle cose. Dopo aver fatto il volo io e Plamen, un mio amico artista bulgaro che mi aiutato a montare il video. Le immagini erano ottime, ma volevo una qualche idea che spezzasse la monotonia. Mi è venuto in mente un gioco che facevo da piccolo, ho preso un phone e una volta acceso ho posizionato una pallina da ping all’interno del flusso d’aria. Vedendo quella pallina bianca che galleggiava mi è nato un istinto irrefrenabile di scrivere qualcosa. ma cosa? Quando ho cominciato a toccare la pallina con la penna è diventato impossibile tracciare delle linee sicure, più’ ci provavo e più’ questa si muoveva all’impazzata. ho cominciato cosi a giocare con questa pallina attraverso la penna, nessun progetto solo improvvisazione. Ho provato e riprovato a scrivere e a disegnare finché’ la pallina è diventa un insieme di tantissimi tratteggi, quasi tutta nera. Alla fine non ho scritto neanche una parola e non ho disegnato alcun che di definito e la pallina è diventata il documento di questo fallimento.
FM ll tuo lavoro è molto articolato, il ricorso a discipline canoniche come il disegno o la scultura si affianca a lavori nei quali ti rivolgi alla tecnologia, non tanto per sfruttare le sue possibilità di spettacolarizzazione, quanto per indagare i suoi funzionamenti interni, spesso agendo su di essi al fine di creare situazioni di sospensione, di messa in dubbio e di “stallo” dei loro linguaggi, aprendo in tal modo possibilità di riflessione sul linguaggio tout-court e sui processi di comunicazione tra individui, e tra individuo e mondo. Da un lato sviluppi opere che hanno un carattere quasi tautologico, come il generatore di frasi casuali esposto a Kunstart, o il video sulla catena binaria, dall’altro realizzi progetti nei quali la partecipazione del pubblico è di fondamentale importanza per la loro riuscita e da’ il senso all’opera stessa, come nelle Tele sociali o in installazioni che devono essere partecipate, penso al Germogliatore. Quali sono i percorsi e le necessità che legano questi lavori ?
AM Il linguaggio mi ha sempre affascinato, sia da un piano sintattico che semantico. Questo è sintetizzato abbastanza chiaramente nel lavoro catena binaria. Qui ho giocato con la grammatica del più elementare linguaggio che l’uomo conosce, quello binario, per costruire una struttura composta da punti e linee. La struttura si muove in uno spazio quasi privo di gravità e tenta, senza successo, di comporre delle lettere continuando a collassare su se stessa. Alcuni filosofi lo chiamano il muro del linguaggio. Ciò che ci permette di comprenderci ma che anche ci separa dagli altri. È un po’ come la pelle che ci unisce e ci separa dal mondo . Il linguaggio è sicuramente un elemento guida della mia ricerca. Un linguaggio fatto di segni, a volte ermetico, freddo,razionale, asettico, altre volte imprevedibile, che diventa dialogo o meglio una promessa di dialogo come accade nelle tele sociali. Partendo da un modulo triangolare, ho invitato collaboratori estemporanei a costruire uno composizione astratta che si è sviluppata in modo imprevedibile, rendendo ogni partecipante protagonista di un processo creativo partecipato, in una dimensione sociale. Accade che in uno stesso spazio possano convivere tracce di vite diverse, ideologie contrastanti, pensieri incompatibili. Il lavoro è semplicemente stato un invito alla possibilità. Quando parliamo di linguaggio è molto intuitivo parlare anche di scrittura. In molti miei lavori sono presenti oggetti che scrivono. Penso a No work Today: 500 bic tenute insieme da un fascia. La maggior parte delle penne hanno la punta rivolta verso chi le guarda, altre sono capovolte e si forma così la scritta “no work Today” con il classico tappino rosso della bic. Questa scultura appartiene ad un gruppo di lavori nati per combattere il grigiore dell’ufficio, un lavoro che guarda alla burocrazia come fonte di ispirazione. Che rapporto abbiamo con gli oggetti che ci circondano ? Cosa sono gli oggetti per noi? Cosa rappresentano? Che differenza c’è tra oggetto e strumento? L’oggetto è inflazionato, è usato, è collezionato, siamo passati dall’utensile all’oggetto,ma quale differenza c’è tra i due? Penso all’installazione Le parole che non ti ho detto fatta ad Upload project. 700 matite sospese 5 km di filo e 200 m di spazio e di vuoto racchiuso. Un’installazione nata da un mio trascorso, quindi direi che un altro elemento da cui nascono i miei lavori sia il mio intimo. Alla fine forse l’unico elemento della mia ricerca è il mio vissuto quotidiano.
FM Mi viene in mente il teatro di Ionesco, apparentemente ricostruzione grottesca e paradossale di caratteri e situazioni, in realtà portatore sano di qualcosa di più impegnativo e in fondo di più tormentato anche perché inesauribile, la ricerca del senso dell’esistenza e di ciò che la rende tale; luoghi, oggetti, parole, e gli effetti delle loro infinite possibilità combinatorie. Un frammento di dialogo tratto dalla Cantatrice calva credo possa svolgere la funzione di chiosa finale del nostro breve dialogo. Signora Smith E’un bravo medico. Si può avere fiducia in lui. Non ordina mai dei rimedi senza averli sperimentati prima su di sé. Prima di far operare Parker, ha voluto farsi operare lui al fegato, pur non essendo assolutamente malato. Signor Smith Come si spiega allora che il dottore se l’è cavata, mentre Parker è morto? Signora Smith Evidentemente perché sul dottore l’operazione è riuscita, mentre su Parker no. Signor Smith Quindi Mackenzie non è un bravo medico. L’operazione avrebbe dovuto riuscire su tutti e due, oppure tutti e due avrebbero dovuto soccombere. Signora Smith Perché? Signor Smith Un medico coscienzioso dovrebbe morire insieme con il malato, se non possono guarire insieme. Il comandante di una nave perisce con la nave, nei flutti. Non sopravvive mica. Signora Smith Non si può paragonare un malato ad una nave. Signor Smith E perché no? Anche la nave ha le sue malattie; d’altronde il tuo medico è sano come un pesce; ragion di più, dunque, per perire insieme col malato come il comandante con la sua nave . Signora Smith Ah! Non ci avevo pensato…forse hai ragione…E allora cosa si deve concludere? Signor Smith Che tutti i medici sono ciarlatani. E anche tutti i malati. Solo la marina è sana. In Inghilterra.